L'incompiuto poema degli ultimi

 di Luigi Raso

Fra una produzione scenica irrisolta e una concertazione problematica, torna in scena al Teatro di San Carlo La bohème

NAPOLI, 22 gennaio 2019 - Entusiasma poco la ripresa sancarliana della Bohème (la quarta in quattro anni) nell’allestimento con la regia di Francesco Saponaro e le scene e i costumi di Lino Fiorito, uno spettacolo Made in Naples e nella stessa città partenopea ambientato, con cene prodotte dal San Carlo nel proprio laboratorio a Vigliena, nella riqualificata periferia Est, un tempo a spiccata vocazione industriale.

L’intento della regia è quello di cantare la poesia degli ultimi: un mondo abitato da umili popolani, multiculturale, periferico.

La scena dipinta ci mostra subito il Vesuvio, il golfo di Napoli, la luna e un’improbabile Tour Eiffel che sembra ricordare N’Albero, installazione commerciale-natalizia - molto criticata - posta sul lungomare partenopeo due anni fa. Nello stesso spazio scenografico si svolge l’azione del secondo Quadro, molto più colorato e animato dai Cori, dal richiamo di Parpignol, dalle richieste dei bambini. L’azione, per i primi due Quadri, si svolge en plein air, in un luogo che, a giudicare dalla prospettiva del panorama dipinto, dovrebbe coincidere con il Vomero. Uno spazio aperto sulla baia di Napoli nel quale si muovono i protagonisti, anonimi personaggi umili, un ebreo con barba, payot e Kippah, un venditore ambulante marocchino con il Fez. I costumi sembrano alludere a certe scene del film Miseria e nobiltà. Quello di questa Bohème è, però, un mondo povero e irredento, nel quale non c’è spazio per il sorriso e l’ironia.

Per il terzo Quadro l’azione si sposta proprio in quella periferia Est dove è nato l’impianto scenografico: una periferia squallida, con una sordida locanda e sovrastata da un Vesuvio innevato e minaccioso. È un nonluogo anonimo e abitato da sbandati, ubriachi. Anche Rodolfo esce dalla locanda visibilmente ubriaco e con una bottiglia in mano.

La notte domina il quarto Quadro: è nera quella che, illuminata solo dai lumini funebri, accoglie Mimì al suo ritorno da Rodolfo; livida, con il cielo nuvoloso e stellato, la luna corrucciata e meditabonda, quella che fa da sfondo allo scarno e asettico corteo funebre della fioraia, trasportata con “tanta fretta” che impedisce a Rodolfo di abbracciarla per l’ultima volta. Poco prima, però, alla domanda “Son bella ancora?”, Mimì aveva visto illuminarsi a mezze luci, per pochi secondi, la sala del San Carlo.

In definitiva, quello di Saponaro e Fiorito, appare uno spettacolo incompiuto, oscillante tra scarna tradizione scenica e innovazione: da una parte l’abusata oleografia napoletana (Vesuvio, mare, golfo, luna) nel quale si innesta la Tour Eiffel/N’Albero, da un’altra il desiderio di innovare, cantando le periferie, gli ultimi, gli esclusi. C’è qualcosa di “già visto” e qualcosa di irrisolto. Come a dire: vorrei osare…“ma non ardisco”.

L’aspetto musicale non si imprime nella memoria, immerso com’è in una appena sufficiente routine.

La concertazione di Alessandro Palumbo spiana dalla partitura segni d’espressione e poesia, squisitezze strumentali, colori. Anzi, risulta troppo spesso problematica la coesione sonora tra buca e palcoscenico: il suono dell’orchestra, di per sé bello e rotondo, è tenuto generalmente sul forte, tanto da coprire troppo spesso il palcoscenico, negando il giusto “respiro” ai cantanti, incalzati da una pesantezza sonora eccessiva. Non mancano imprecisioni agogiche tra orchestra e canto. La lettura della complessa partitura pucciniana appare eccessivamente stringata, asciutta e poco analitica.

In questo contesto le prove dei singoli interpreti appaiono compromesse, a tratti in palese difficoltà a causa di una concertazione che dell’accompagnamento del canto sicuramente non fa il suo aspetto forte.

La  Mimì di Karen Gardeazabal ha voce di buon volume, dal bel timbro, corposa, ma troppo di petto nel registro grave. Quella del soprano messicano è una prestazione in crescendo: dimessa nel primo Quadro, nel quale non traspare l’emozione provata da Mimì per il primo sole d’aprile, per il germogliare di rosa, mentre diventa più intensa nel terzo e nel quarto Quadro.

Giorgio Berrugi ha le carte in regola per essere un ottimo Rodolfo: voce di tenore lirico, timbrata, dal buon volume, facilità nell’emissione e canto sfumato, e molta espressività. Tuttavia la concertazione non gli concede il giusto respiro nella "Gelida manina", limitandone il fraseggiare e rendendogli periclitante la speranza.

La Musetta di Hasmik Torosyan è seducente e convincente scenicamente; la voce, adeguatamente corposa, è ben timbrata. Il meraviglioso valzer è cantato con passione e seduzione. Bene anche nei due Quadri conclusivi.

Simone Alberghini ha voce non ricca di armonici, non molto proiettata; riesce a delineare comunque un Marcello melanconico e credibile. Accettabile lo Schaunard di Enrico Maria Marabelli. Il Colline di Giorgio Giuseppini ha qualche difficoltà di intonazione nella Zimarra, ma il personaggio del filosofo c’è ed è autorevole.

Pieno di spirito e verve il Benoît e Alcindoro di Matteo Ferrara, così come il Parpignol di Enrico Zara.

Buona la prova del Coro del San Carlo diretto da Gea Garatti, così come quello di Voci Bianche, sempre preciso e partecipe, diretto da Stefania Rinaldi.

Resta l’amarezza per uno spettacolo che, dopo gli altissimi esiti del Così fan tutte inaugurale (leggi la recensione) e la successiva Kát'a Kabanová (leggi la recensione), segna un deciso passo indietro nella scala qualitativa.

Al termine, applausi dal moderato entusiasmo per tutti.

 

foto Luciano Romano