Carlos Alvarez e Ruth Iniesta

Verdi eclissato

 di Antonino Trotta

Più plumbeo del Trovatore, più manierato della Traviata, in bilico tra una concertazione fallimentare e una regia inane, la nuova produzione di Rigoletto, ultimo capitolo della trilogia al Teatro Regio di Torino, fonda il principale punto di valore nell’ottimo parterre vocale, nel quale primeggiano Carlos Alvarez e Ruth Iniesta.

Leggi anche la recensione del cast alternativo (Enkhbat, Rivas, Fiume) a cura di Alberto Ponti Torino, Rigoletto, 14/02/2019

Torino, 6 Febbraio 2018 – Più buie della notte e più inconsistenti della lattiginosa foschia, le figure di Rigoletto, dai cortigiani al duca, da Monterone a Sparafucile, sono malvagie, torbide, soffocanti, sorgono al crepuscolo e vivono nella loro cecità protette dall’impenetrabilità delle tenebre che tutto concede e tutto nasconde. Quasi tutti i punti salienti del percorso teatrale si svolgono al riparo dal sole, in anfratti tetri o lungo rive deserte, e molti dettagli del libretto di Piave, al di là delle pure indicazioni sceniche, evocano l’oscurità, non solo come circostanza temporale, piuttosto come riflesso di uno spirito adombrato. Quella di Rigoletto, però, non è un’anima nera, è un’anima eclissata. Ma un’eclissi nasconde sempre una luce accecante, come quella con cui Verdi illumina la partitura, come quella occultata nel nuovo allestimento di Rigoletto, in scena al Teatro Regio di Torino, dal ferale abbraccio tra regia e direzione.

Immerso nell’atmosfera plumbea e catacombale di una Mantova sotterranea, lo spettacolo firmato da John Turturro e Cecilia Ligorio – già recensito su queste colonne in occasione del debutto palermitano [leggi] – fagocita tutti i bagliori del lavoro verdiano per restituire una messinscena in cui le condizioni al contorno accentrano l’attenzione dell’intera rappresentazione senza nulla infondere a un disegno che all’atto pratico non si allontana mai le impostazioni di routine. La decadenza dell’Ancien Régime, cornice storica in cui è stata trasportata l’azione (nemmeno si dovesse rappresentare Andrea Chénier!), non giustifica né il libertinismo e né viltà di corte, invero alimentati dal lusso e dallo sfarzo, ma finisce col diventare una pretestuosa circostanza in cui enfatizzare oltremodo l’elemento fantastico e surreale della narrazione giacché fantasmi e spiritelli si aggirano per il bosco durante la tempesta e danzano nello specchio del diroccato palazzo ducale. Anche la spettrale apparizione di Gilda e l’abbagliante squarcio aurorale sul finale (non era questa la luce a cui ci si riferiva prima), vittima dell’amore paterno e dell’amore carnale, sembra tradire la natura umana del dramma di Rigoletto, così lontano dai canoni del romanzo gotico, dove il tema della maledizione è solo una radiografia culturale dell’epoca. Gli eccentrici costumi di Marco Piemontese, bellissimi, acuiscono poi la caratura vampiresca della dialogica visiva e richiamano a tratti i personaggi della saga di Harry Potter. Un Rigoletto, dunque, in oscillazione tra l’effimero effetto pellicola e la ribalta, perché la movimentazione della masse e dei personaggi è banale, spesso brutale e meccanica, quasi da esecuzione in forma da concerto, come l’ingresso di Monterone prima del celebre grido di vendetta, che arriva in proscenio, canta e se ne va. Tralasciando poi lo straniamento da déjà-vu, che pur si ripropone continuamente durante lo spettacolo, non si può negare il fascino delle scenografie sbilenche di Francesco Frigeri, suggestive soprattutto nell’indefinita foresta di betulle, velata sul boccascena dalla ripresa degli affreschi (di Giulio Romano) della Sala dei Giganti di Palazzo Te a Mantova. Faticano a risultare comprensibili anche le soluzioni illuminotecniche di Alessandro Carletti, curate in questa sede da Ludovico Gobbi, perennemente cupe, salvo poi gli improvvisi coni di luce sui protagonisti nelle scene di maggior pathos, con risultati talvolta ilari (i riflettori puntati sulle tese larghe e bianche della cornetta di Giovanna, nell’oscurità della notte, suggeriscono l’idea di un enorme abat-jour). Certo, non mancano intuizioni simboliche apprezzabili (nel secondo atto Gilda indossa una sottogonna rossa, metafora della perdita di purezza), ma tutto affoga nella fitta nebbia che aleggia in ogni ambientazione. Insomma, molto, moltissimo fumo, e poco arrosto.

Sul podio non giova affatto la bacchetta di piombo di Renato Palumbo, tanto veloce nei tempi staccati quanto violenta nei costrutti sonori, che appesantisce ai limiti del sostenibile la resa musicale della partitura verdiana e immola la serena relazione con il palcoscenico, duramente messo alla prova sia nella pagine corali che nelle sezioni solistiche. A penalizzare l’esito dell’intera concertazione non è solo il bagaglio di agogiche isteriche e singhiozzanti, che non teme di scadere nel lezioso (un continuo allargare e stringere nell’introduzione trasforma «Caro Nome» in una stucchevole barcarola, così come l’insensata enfasi dell’accento sul battere nel cantabile «È il sol dell’anima» o nella canzone «La donna è mobile» pare impegnarsi per avvalorare le illazioni dei sostenitori dello “zum-pa-pa musik”, giusto per fare alcuni esempi) e straccia la trama del tessuto ritmico, quanto la melmosità del colore, sempre greve e grigio, risultato dell’irruenza con cui l’Orchestra del Teatro Regio incede, spesso con un suono persino legnoso (e sappiamo quanto bene possano suonare!). A tutto questo si aggiungono poi delle scelte del tutto stravaganti, come l’interminabile corona dei bassi nell’accordo prima della cabaletta del duca, contrasto drammatico a una leggerezza non pervenuta. Solo il tempo d’attacco del quartetto intavola finalmente un po’ di brio, ma la performance direttoriale nel complesso è da dimenticare.

Da questa sabbie mobili si libera, non senza difficoltà, il parterre vocale. Carlos Álvarez è un signor cantante e, come diversamente non potrebbe essere, porta in scena un signor Rigoletto. Signore non solo per la ricchezza del canto o per la voce scultorea, quanto per l’allure aristocratica del suo giullare, quasi fosse un principe caduto in miseria, magnifica negli accenti e nelle inflessioni con cui modella la parola scenica, non solo valorizzata ma condotta a vertici di assoluto compimento teatrale. A onor del vero, ci sarebbero un paio di imprecisioni riconducibili alla gestione del fiato (nel duetto con Gilda e nel «Si, vendetta»), ma tali slittamenti sono da imputare solo all’ostilità di una direzione poco reattiva.

Non meno interessante Ruth Iniesta, forte di un timbro e di una linea vocale adamantina e svettante, aggraziatissima e precisa nei terribili vocalizzi, pulita nei trilli e penetrante nelle puntature. Alla padronanza scenica del ruolo si sommano poi la spiccata espressività della linea di canto, flessuosa e sfumata, e la sensibilità del fraseggio che fanno della sua Gilda una donna a tutto tondo.

Del duca di Stefan Pop si è già parlato nella recensione del Rigoletto che ha inaugurato la stagione del Teatro Coccia di Novara e si riconfermano le stesse impressioni di allora: il physique du role c’è («giovin, giocondo, sì possente, bello»), il fare baldanzoso e piaggiatore pure, la voce squilla e corre, ma il canto stentoreo riserva ancora delle insidie e in alto si percepisce un po’ di durezza.

Gianluca Buratto ha una voce dalla portata travolgente in tutta la tessitura, così il suo Sparafucile, dominatore incontrastato del terzetto dell’ultimo atto, rinvigorisce con venature profetiche e ieratiche mentre alla Maddalena di Carmen Topciu manca corpo nel registro medio-grave e il personaggio appare meno seducente di quanto dovrebbe. Ci sarebbe piaciuto ascoltare la voce del Monterone di Alessio Verna, ma la parete orchestrare nelle battute a lui riservate è praticamente invalicabile. Accorata la Giovanna della brava Carlotta Vichi.

Buona la prova del Coro del Teatro Regio di Torino, istruito dal maestro Andrea Secchi, anch’esso sacrificato. Completano correttamente il cast Paola Maria Orecchia (Marullo), Luca Casalin (Matteo Borsa), Federico Benetti (Il conte di Ceprano), Ivana Cravero (La contessa di Ceprano), Riccardo Mattiotto (Un usciere) e Ashley Milanese (Il paggio della duchessa).

Buona affluenza e applausi convinti per tutti, con punte di entusiasmo sincero per i tre protagonisti.

foto Edoardo Piva © Teatro Regio Torino