L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il ritorno di Ariodante

di Francesco Lora

Il superbo spettacolo händeliano creato in seno al Festival di Salisburgo è stato ripreso all'Opéra di Monte Carlo, con la lettura teatrale di Christof Loy e quella musicale di Gianluca Capuano; su tutti, Cecilia Bartoli.

MONTE CARLO, 22 febbraio 2019  L'Ariodante di Händel concepito per il Festival di Pentecoste di Salisburgo nel 2017, e poi lì ripreso nel successivo festival estivo, è uno spettacolo da vedere e rivedere [leggi la recensione: Salisburgo, Ariodante, 05/06/2017]. Alla base del suo valore sta l'esecuzione integrale della partitura, che non concede sconti sia nella parte musicale sia in quella teatrale, e che sprona tutti gli artisti coinvolti allindagine della verità testuale. E alla base del suoi valore sta anche una locandina con interpreti tra i più referenziati sul mercato globale degli specialisti (fossero anche tutti italiani, con la giusta fonetica linguistica, la giusta scuola di canto e il giusto idiomatismo attoriale, sarebbe la perfezione: ma non si può aver tutto). A Salisburgo l'orchestra era quella appena fondata, con strumenti originali, dei Musiciens du Prince, ossia dei barocchisti in residenza nel Principato di Monaco, sotto il diretto patronato del principe regnante. Con l'Opéra di Monte Carlo, a sua volta, Cecilia Bartoli, direttrice artistica del Festival di Pentecoste e interprete della parte protagonistica händeliana, intrattiene da tempo un rapporto privilegiato. Detto fatto, l'Ariodante di Salisburgo è stato ripreso quasi tal quale in Costa Azzurra, per quattro affollate, integrali, raffinate recite dal 22 al 28 febbraio.

Minimi i cambiamenti, legati più al tempo frattanto passato che alla volontà di modificare. Nella regìa di Christof Loy, per esempio, la pretesa metamorfosi di Ariodante nella femminilità di Ginevra era, nel 2017, anche una strizzata d'occhio al fresco fenomeno di Conchita Würst, la memoria intorno al quale si è diradata soprattutto fuori dall'Austria. Rimane, per il resto, il capolavoro di strenua messa a punto recitativa con i cantanti, di contaminazione fra leziosaggini settecentesche e realismo contemporaneo, e di coreografia, del pari, strattonata ad arte tra danza filologica di gruppo, punte e tacchi, e tra libero movimento convulso alla maniera odierna. Si pongono così agli antipodi, nell'idea del coreografo Andreas Heise, le pastorellerie negli atti I e III rispetto agli incubi che turbano il sonno di Ginevra nel II; una preziosa ricerca del dettaglio, tra giustapposizioni disinibite, caratterizza del pari l'impianto scenico di Johannes Leaicker e il corredo costumistico di Ursula Renzenbrink. È un privilegio rivedere tutto in una sala, quella garnieriana di Monte Carlo, ancor più raccolta rispetto alla Haus für Mozart: e quando l'Ariodante annunciato per il 2021 al Teatro alla Scala, sempre con la Bartoli, si avvalga del medesimo allestimento scenico, tanta meraviglia apparirà forse tolta alla proporzione sin qui goduta.

Una figura penosa attende chi voglia far le pulci alla diva Cecilia, qui alle prese con l'unico grande ruolo en travesti tenuto in repertorio. È stupenda, secondo le regole che in trentanni di carriera ella stessa ha fatto valere, come nessun'altra, intorno al modo di approcciare il canto settecentesco, dal punto di vista retorico non meno che virtuosistico. Il suo Ariodante è un vertice di accento ed energia, patetismo disperato, nonché ironia intorno alle forme e alle figurazioni della vocalità händeliana senza rete: solo ella, oggi, potrebbe permettersi di cantare, senza offenderla, la frastagliatissima aria «Dopo notte atra e funesta», domando i capricci di semicrome e insieme stringendo un sigaro tra i denti. Piace ritrovare al suo fianco, come Ginevra, Kathryn Lewek, ragazza paffuta, attrice di ferro, soprano dalleffetto ora abbagliante (nella linea di canto) e ora straziante (nellintento espressiva) quando si appende disinvolta alle soglie del registro sopracuto. Sempre più efficaci come attori che perfetti come cantanti Sandrine Piau, flebile Dalinda, e Christophe Dumaux, aspro Polinesso. Un relativo sollievo quello che Peter Kálmán dà, come pur ruvido Re di Scozia, sostituendo quello rozzo ascoltato a Salisburgo. Un sogno, sempre, avere un tenore timbrato e prestante qual è Norman Reinhardt in unopera di Händel e nella parte di Lurcanio.

Si apprezza meno che a Salisburgo, infine, la realizzazione musicale presieduta da Gianluca Capuano. Tra sorpresa, curiosità, benevolenza, proposta sue e di tutti, là egli aveva sostituito su due piedi un Diego Fasolis dal quale si attendevano grandi cose. In concomitanza delle recite monegasche è avvenuta la sua nomina ufficiale a direttore stabile dei Musiciens du Prince, e negli ultimi mesi il pubblico italiano stesso lo ha meglio conosciuto come concertatore inserito in alte sfere di mercato (La Cenerentola di Rossini che con la Bartoli ha inaugurato il Teatro Galli di Rimini; il concerto belcantistico che a breve vedrà la Bartoli debuttare al S. Carlo di Napoli). A caratterizzare il suo lavoro è l'attenzione a calibrare ogni gesto musicale su ciò che sta simultaneamente avvenendo sulla scena: l'orchestra respira con la recitazione. Ma ciò denuncia anche una sottomissione incarnata del discorso musicale, che avrebbe le proprie leggi, rispetto a quello registico, che impone svelto le proprie. Si ascolta, così, un'orchestra dall'alto potenziale, ma trattata con timidezza, dunque portata a esprimersi in punta di piedi anche dove potrebbe ben altrimenti avvampare: né basta infarcirla di strumenti a percussione, ammissibili nelle danze ma non altrettanto nei ritornelli delle arie, per dar prova di auspicata personalità.

©2019 - ALAIN HANEL - OMC


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