Scuola di idiomatismo

 di Francesco Lora

Al Teatro La Fenice, il nuovo allestimento dell’Italiana in Algeri teme il confronto i precedenti ed esilaranti spettacoli rossiniani dello stesso regista, Bepi Morassi. La parte musicale, però, non si discute, tra la forbita direzione di Giancarlo Andretta e l’inconfondibilità dei cantanti: Simone Alberghini, Chiara Amarù, Antonino Siragusa e Omar Montanari nelle prime parti.

VENEZIA, 2 marzo 2019 – Il repertorio comico di Gioachino Rossini si addice al veneziano Bepi Morassi: come regista d’opera, lavora quasi in esclusiva per la sua città, al Teatro La Fenice; e il Teatro La Fenice possiede suoi allestimenti del Barbiere di Siviglia e del Signor Bruschino – tra gli altri – che tutti di precetto dovrebbero correre a vedere, se già non l’hanno fatto: sono macchine serene, leggere, perfette dell’arte della commedia; rinnovano il sorriso e fanno detonare quelle partiture esplosive. Di pari passo è andata l’aspettativa intorno al suo nuovo allestimento dell’Italiana in Algeri: sette recite nel teatro lagunare, dal 24 febbraio al 5 marzo; scene di Massimo Checchetto e costumi di Carlos Tieppo; innocua trasposizione temporale a un primo Novecento da cartolina. Innocua, però, appunto: pur al cospetto di un’opera favorevolmente sbilanciata verso la farsa, questa volta qualcosa non risponde all’appello dell’esilarante stile morassiano. Sarà che le trovate buffonesche paiono non scaturire dal testo e dalla musica, ma esservi applicate sopra come una terza entità in odore di horror vacui; e sarà che il monumentale impianto scenografico a più piani, sezione di un lussuoso transatlantico tenuto in ostaggio dai pirati, distanzia i personaggi e annacqua il loro stesso interagire. Si rimane benevolmente interdetti, tanto più che il concomitante discorso musicale fila invece alla perfezione.

Del concertatore, Giancarlo Andretta, si ammirano il ritmo argutamente pomposo, i colori vividi e il gioco dinamico instillati nell’orchestra e nel coro veneziani: li si ammira ancor più poiché convivono con un eloquio tornito, elegante, forbito, lì a dimostrare l’influenza stilistica di Mozart sul giovane Gioachino. La prima delle due compagnie di canto vanta un gran pregio: l’immediata riconoscibilità, per materiale e vis scenica, di tutti quanti i suoi elementi. È il caso di Simone Alberghini, finalmente un Mustafà baritonale che non s’impicca salendo e che snocciola con tanto florido smalto quanta ironica simpatia i suoi festoni di semicrome. È il caso di Chiara Amarù, Isabella dai modi spicci, quasi divertita dall’avventuraccia del rapimento, capace tuttavia di montare in cattedra, nel rondò, con accento da eroe en travesti. È il caso di Antonino Siragusa, che sembra ringiovanire col passare degli anni: il suo Lindoro è sempre più sciolto, cordiale e squillante, e maneggia la coloratura con immutata confidenza. È il caso di Omar Montanari, tra tutti il più ruvido e il meno belcantista, tuttavia sagace esponente della sempre più risicata categoria dei bassi buffi: la parte di Taddeo non attendeva altro. Guarda un po’, sono tutti italiani: e anche Giulia Bolcato, come Elvira, nonché William Corrò, come Haly, partecipano all’impagabile idiomatismo stilistico di un gruppo che fa scuola.