L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Da Domingo alla Stoyanova, domenica alla Scala

 di Francesco Lora

Il fitto cartellone del teatro milanese ha proposto, in un solo giorno, l’ultima recita di un’esauritissima Traviata con Plácido Domingo e un applaudito recital di Krassimira Stoyanova, illustre cantante che l’Italia deve ancora ben mettere a fuoco. Nel capolavoro verdiano, la massima parte dell’attenzione è attirata dall’emergente soprano Angel Blue, capace di una Violetta con ampi tratti di originalità.

MILANO, 17 marzo 2019 – Da tempo non si vedeva una ressa simile premere davanti alla biglietteria, con la sala già esaurita da mesi e con i posti in piedi già venduti fino all’ultimo; è intercessione di santa Cecilia se, a un certo punto, l’addetto sulla porta annuncia che si sono liberate quattro poltrone: i primi in fila le acquistano senza nemmeno chiedere quanti grossi tagli debbano prendere il volo dal portafogli. Così accade all’ultima recita della Traviata di Verdi al Teatro alla Scala, anzi all’ultima delle tre che, dopo il ciclo di gennaio-febbraio [leggi la recensione], in marzo hanno visto un rinnovo della locandina e il subentro di Plácido Domingo come Giorgio Germont. La ressa, si capisce, è per lui; o per il feticcio che egli rappresenta negli ammiratori irriducibili, tra i quali sempre più – la nuova generazione – ha conosciuto di lui quasi solo l’età anziana, i segni del declino e il caparbio ripiego sulle parti baritonali. Va ammesso: a settantotto anni la risonanza è ancora importante, il timbro inconfondibile, e le parti baritonali cadono ora, sul vecchio leone, con accresciuta dimestichezza rispetto a qualche anno fa. Se mai Domingo penserà al ritiro (se mai), non sarà per aver fatto i conti con l’anagrafe. Pure, esagera chi pretenderà che la sua recitazione alla Scala sia stata magnetica come non altra: il quasi coetaneo e altrettanto inossidabile Leo Nucci, nelle recite precedenti, mostrava migliori padronanza del palcoscenico, confidenza col personaggio e consapevolezza della regìa (a danno di entrambi, il taglio della cabaletta). Per il Domingo baritono, il tallone d’Achille rimane quello di preoccuparsi innanzitutto della dimensione verticale del canto, cioè del controllare il registro acuto nelle giuste posizioni fisiche, anziché di conseguire la continuità emissiva orizzontale alla base del necessario legato. In parole povere: un chioccio affanno prende il posto dell’auspicato srotolamento melodico, e severo tornasole sul conto di Domingo è la compresenza dei colleghi.

Si allude in primo luogo al soprano Angel Blue, allieva e beniamina di Domingo in persona, corsa a sostituire Sonya Yoncheva nella parte protagonistica e premiata così con un debutto in piena regola alla Scala, dopo qualche apparizione di non comparabile impatto (Musetta nella Bohème, Clara in Porgy and Bess). Come cantante vanta dovizia di estensione, smalto, brunitura e omogeneità, ha agilità dignitosa e alla studiata eleganza antepone un’innata simpatia; nell’atto II – ecco il punto – finisce involontariamente per far torreggiare il proprio rigoglio di mezzi e il proprio galateo del canto sull’ingolfato baritono. Come Violetta Valéry dà parimenti luogo a un personaggio che ride di gusto nell’atto I, e che anche nel III suona più bonaria che sfinita nel rinfacciare al medico la «bugia pietosa»: da lì al finale, nondimeno, rimarranno alla mente il dolore infuso nella romanza, commovente per semplicità espressiva, così come la zampata da primadonna nel tuonare senza fine il disperato attacco di «Gran Dio!... morir sì giovane», proprio là ove il librettista prescrive un sorgendo impetuosa di rado realizzato più alla lettera. Se una cosa non manca alla Violetta della Blue, essa è del resto il senso di materica corporeità: anche poiché questa maestosa ragazzona dalla pelle nera, fatta non certo per passare inosservata, manda in crisi, con la figura, i modi e gli intuibili sottintesi, la cauta, nobile, poetica e borghese oleografia nell’allestimento di Liliana Cavani, Dante Ferretti e Gabriella Pescucci. Fra i tre interpreti principali, da gennaio a marzo è rimasto dunque al proprio posto il solo Francesco Meli: egli si riconferma un sicuro riferimento per la parte di Alfredo Germont, benché sempre incresciosamente scippata della ripresa della cabaletta. A sua volta nuova, invece, la direzione: non più quella di Myung-Whun Chung, bensì quella di Marco Armiliato, che trova orchestra e coro scaligeri in assetto di gala e che con encomiabile dedizione è sempre a sostegno delle voci.

Non si può infine dire che al Teatro alla Scala si incrocino le braccia. Dopo la recita domenicale e pomeridiana del 17 marzo, iniziata allo snobissimo orario delle 14.30, è rimasto giusto il tempo di un aperitivo; poi si era di nuovo nella sala piermariniana, per un recital del soprano Krassimira Stoyanova accompagnata al pianoforte da Ludmil Angelov. È l’occasione per mettere meglio a fuoco l’arte di una cantante presente con regolarità alla Scala – è stata, per esempio, Elisabetta di Valois e Aida, e in maggio tornerà per l’Ariadne straussiana – ma tuttora più compresa e ammirata nel contesto mitteleuropeo che in quello italiano. La contraddistinguono una solidissima organizzazione vocale del privilegiato vivaio bulgaro, e l’avvedutezza di insistere sul repertorio lirico anziché gettarsi su quello drammatico, che pure sarebbe già pienamente alla sua portata e le aprirebbe un forse più ambìto mercato. Il programma impaginato dimostra quale maggior gloria derivi però da mezzi importanti uniti a modi raffinati: una sensibile duttilità prodiga delle opportune sfumature, tanto più rimarchevole presso una voce estroversa e squillante, attraversa i Lieder di Schubert (Trockene Blumen, Gretchen am Spinnrade e Ave Maria), Strauss (Die Nacht, Mein Herz ist stumm, Meinem Kinde, Ich schwebe e Morgen) e Korngold (Drei Lieder, op. 22), e cede infine il campo alla vivida teatralità di Musorgskij (Canzoni e danze della morte), offrendo nel contempo un saggio del più fiammeggiante temperamento della Stoyanova (la lingua russa la pone comprensibilmente nel pieno delle proprie facoltà retoriche). La serie dei bis si rivela infine uno scomparto coerente del programma musicale, questa volta intento alla lirica da camera all’italiana e in particolare alla produzione di Puccini: quella della quale il soprano bulgaro ha consegnato anche una benvenuta integrale discografica, e che alla Scala è stata distillata, tra compunzione e ironia, in Sole a more, Salve regina e Casa mia, casa mia.


 

 

 
 
 

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