L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Dialogo su una cellula motivica

 di Francesco Lora

La Sinfonia n. 2 di Mahler e Otello di Verdi si avvicendano al Teatro La Fenice, uniti anche dall’idea interpretativa di Myung-Whun Chung, memorabile nella prima partitura anche grazie al canto di Zuzana Marková e Sara Mingardo, e a condizione, nell’opera, della sopraffina autonomia intellettuale di Carmela Remigio.

VENEZIA, 10 e 30 marzo 2019 – Nella Sinfonia n. 2 di Gustav Mahler, quinto movimento, all’indicazione agogica “Im Anfang sehr zurückgehalten”, dove avviene il passaggio al “tempo tagliato”, flauti e corno inglese, sul tremolo dei violini e subito raggiunti dall’oboe, gemono su una cellula motivica minima eppure inconfondibile: un intervallo di semitono discendente, dal valore lungo a quello breve, che scansa il tempo più forte della battuta. È l’omaggio dell’autore all’anziano Giuseppe Verdi: giusto un anno prima che Mahler iniziasse a comporre la partitura sinfonica, questi aveva consegnato alle scene il suo penultimo capolavoro operistico; e quella cellula motivica minima è la stessa che corno inglese, clarinetto e fagotto, sul tremolo di violini e viole, gemono nel monologo finale di Otello, là dove il protagonista agonizzante sussurra «Pria d’ucciderti... sposa... ti baciai». Ecco uno spunto testuale che pone in dialogo i due ultimi spettacoli presieduti dalla bacchetta di Myung-Whun Chung al Teatro La Fenice: appunto due esecuzioni della Sinfonia n. 2 di Mahler (9-10 marzo) e cinque recite di Otello di Verdi (22 marzo - 7 aprile).

Dallo spunto testuale si passa in breve a un uguale atteggiamento interpretativo: sia l’una sia l’altra partitura suonano, in Chung e attraverso l’orchestra e il coro veneziani, con il pieno sfogo volumetrico e coloristico delle sezioni, fin quasi a un’esibita violenza di gesto musicale, con un deliberato scontro tra le porzioni della partitura, e articolando con tragica asciuttezza anche i passi più sommessi e lirici; un duro eloquio che rinnova la memoria di quanto già ascoltato nel Macbeth inaugurale [leggi la recensione]. Soprattutto presso Mahler varrà la pena di ribadire lo straordinario progresso tecnico conseguito dalle maestranze lagunari negli ultimi tre lustri, a maggior ragione per il fatto che la plumbea, scabra, burbera lettura di Chung implica una niente affatto minore dose di virtuosismo senza rete.

Stupendo è a sua volta l’idiomatismo, non germanico ma italico, prestato a Mahler dalle voci soliste, con una lezione di stile valida anche oltralpe. Il soprano è infatti Zuzana Marková, con la sua emissione lieve e trepida, e con la sua linea piena di pudica espressione: i suoi interventi paiono quelli di un anonimo personaggio d’opera, suggerito con mano leggera e sgravato da calligrafismi mitteleuropei. Il contralto, a sua volta, è una Sara Mingardo rotonda, calda, ambrata, che nel suo Lied del quarto movimento sembra abbracciare con gesto materno l’uditorio: dalle specialiste tedesche non si è forse mai ascoltato un più profumato e palpitante Urlicht.

A voler individuare il limite di Chung, lo si trova non in Mahler ma in Otello, e in particolare nella preparazione della compagnia di canto e nel successivo scambio con essa tra podio e scena. Al cospetto di una musicista dalla sopraffina autonomia intellettuale, qual è Carmela Remigio, egli può compiere estemporanei prodigi di flessuoso accompagnamento: il dominante intervento di Desdemona nel concertato dell’atto III, indi tutta la Canzone del salice e l’Ave Maria, fissano venti minuti di memorabile ispirazione, con direttore, soprano e orchestra in reciproca condizione di ambire all’inaudito. Ma con il suo involo immacolato, la sua arte del porgere la parola, la sua dotta scioltezza gestuale, il suo ispessito registro grave, il suo fraseggio che raffigura la più disarmante naturalezza proprio per il fatto di essere indagato al millimetro, la Remigio è l’eccezione che conferma la regola. La sua estrazione artistica, diminuita a scala di caratterista e di comprimario, si ritrova nell’ottimo mestiere di Matteo Mezzaro, come Cassio, e di Antonello Ceron, come Rodrigo. Se a livello personale latitano la giusta iniziativa attoriale e la completa dotazione tecnica, al contrario, non è da Chung che ci si può attendere il labor limae sulle altre due parti di primo piano. Un lavoro che qui sarebbe più che urgente.

Marco Berti, come Otello, è infatti stupefacente quanto a risonanza, squillo e resistenza, insomma nel canto di forza esibito a pieni polmoni; ma a porlo in affanno sono le frasi da distillare, percorse non di rado da difetti d’intonazione e, soprattutto, dalla mancanza di una precisa bussola interpretativa. Dalibor Jenis dà invece luogo al solito Jago vociante, sopra le righe, dalla risataccia diabolica, poco attento alla parola ma pronto a distorcerla, dunque il personaggio apertamente manigoldo che è tutto all’opposto di quello sottile, insinuante e insospettabile preteso da Verdi.

Le pezze non poste da Chung non lo sono nemmeno dai responsabili della parte teatrale. L’allestimento è una ripresa di quello varato nel 2012, con regìa di Francesco Micheli, scene di Edoardo Sanchi, costumi di Silvia Aymonino e luci di Fabio Barettin: uno spettacolo innocuamente inscritto nella tradizione, il quale trae fascino dalla dissolvenza delle immagini dietro il tulle al proscenio e dalla proiezione di uno zodiaco ove spicca il leone marciano. Ora più che allora lascia nondimeno perplessi l’avventatezza della licenza finale, con Desdemona assassinata ad accogliere docilmente nell’aldilà lo sposo suicida: come se il femminicidio di Otello – in Verdi tutto intento al materiale cadavere della donna, e non a un possibile ricongiungimento con la sua anima – non fosse altro che il trascurabile tassello di una dimostrazione d’amore da assolvere acriticamente.

foto Marcello Crosera


 

 

 
 
 

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