Se ad Adriana manca la Diva

 di Irina Sorokina

Torna il capolavoro di Cilea al Teatro Filarmonico in un allestimento collaudato in cui, purtroppo, però manca il carisma di una diva che sappia realmente lasciare il pubblico con il fiato sospeso.

Verona, 4 aprile 2019 - Adriana Lecouvreur emana la luce tutta sua. Il suo autore, il compositore calabrese Francesco Cilea, fu contemporaneo di Pietro Mascagni e Ruggero Leoncavallo, Giacomo Puccini e Umberto Giordano e viene collocato all’interno della cosiddetta Giovane Scuola. Non ebbe mai la notorietà dei quattro illustri colleghi, scrisse pochissime opere (soltanto cinque) e la migliore di loro, Adriana Lecouvreur appunto, non raggiunse mai la fama sia delle prime due rondini veriste Cavalleria rusticana e Pagliacci sia dei capolavori pucciniani. Anche Andrea Chénier, con cui viene un po’ “imparentata” in quanto veste i panni storici (entrambe le faccende si svolgono nel Settecento, anche se distanti di mezzo secolo) supera alla grande, per quanto riguarda la fama e la popolarità, Adriana Lecouvreur.

È umile Cilea, umile in tutto. Condusse una vita dignitosa, lasciò un’eredità modesta, la sua scrittura si distingue per trasparenza e linearità. I suoi hit, tra cui il Lamento di Federico dall’Arlesiana e alcune arie dall’Adriana, non sono gettonati come gli assoli di Turiddu e Santuzza, Nedda e Canio, Tosca e Cavaradossi, Maddalena e Andrea Chénier. Ciò nonostante, la musa di Cilea non morì mai, e il pubblico accorre sempre numeroso quando un teatro annuncia in cartellone Adriana Lecouvreur. Perché emana una luce eterna, perché ci parla della bellezza dell’animo femminile, della capacità di amare e lottare di una grande attrice il cui mito è sempre vivo. E attraverso l’anima di Adriana ci descrive la bellezza immortale di quella di tutte le donne.

Ci vuole una grandissima cantante e attrice per impersonare Adriana. Se si trova una Lei con la L maiuscola, il gioco è fatto. Il pubblico resterà incantato. La sua aria di sortita, "Io son l’umile ancella", che parla del rapporto ideale tra l’arte e l’artista, fece parte del repertorio delle cantanti di calibro di Giuseppina Cobelli, Mafalda Favero, Clara Petrella, Carla Gavazzi, Renata Tebaldi, Maria Callas, Maria Caniglia, Marcella Pobbe, ma anche di Leyla Gencer, Virginia Zeani, Renata Scotto, Montserrat Caballé, Joan Sutherland. La più grande Adriana di tutt ii tempi rimane Magda Olivero, la cui interpretazione colpì l’autore stesso; quando la cantante si sposò nel 1941 e fu costretta di lasciare il palcoscenico secondo il desiderio del marito, diede l’addio l’addìo alle scene proprio in Adriana Lecouvreur, a Ravenna. Cilea, per il quale la cantante era riuscita a esprimere qualcosa di più di quello scritto nella partitura, fu disperato. Ci vollero nove anni per il ritorno della Olivero alle scene, Tullio Serafin e Pietro Ostali la pregarono di cantare Adriana per Cilea gravemente malato. La Olivero cantò, ma Cilea non ebbe possibilità di ascoltare la voce dell’artista che letteralmente lo aveva stregato: morì non tanto tempo prima.

Quindi, l’ente lirico veronese non sbaglia quando ripropone per la stagione lirica del 2019 il miglior titolo di tutta la produzione del maestro calabrese. L’allestimento di Ivan Stefanutti, che firma la scenografia, i costumi e la regia di questa Adriana, arriva dal Teatro Sociale di Como (As.Li.Co.), e prima di essere rappresentato a Verona aveva girato parecchi teatri italiani.

Chissà se Ivan Stefanutti era a conoscenza delle parole di Guido Salvetti, che sostenne che «i limiti stessi della musa di Cilea – una certa piattezza di scrittura, una complessiva povertà di lessico – si applicarono con giustezza al quadro settecentesco, togliendo alla protagonista ogni pericolo di enfasi tardo-ottocentesca. Quei limiti divennero così – per una volta soltanto, e a noi basta – doti di misura nella rappresentazione drammatica e di stemperamento delle violenze “veriste” in un clima più adatto – in musica – ai più complessi motivi del decadentismo d’inizio secolo».

Non sfigura, certo, sul palcoscenico del Filarmonico, lo spettacolo di Stefanutti. Come se fosse d’accordo con l’osservazione acuta di Salvetti riguardo al decadentismo d’inizio secolo, abbandona l’ambientazione originale, la prima metà del Settecento, e traferisce l’azione nella belle époque. Crea una vera festa per gli occhi, un paradiso di colori, usandone sapientemente solo tre, il bianco, il nero e l’ambra. Il bianco e il nero si associano facilmente a un film muto, l’ambra è il colore caldo e misterioso che emanano i raffinatissimi lampadari, pure essi in stile liberty (le luci belle e raffinate sono di Paolo Mazzon). Merita un elogio la semplicità quasi estrema delle scene che rappresentano il dietro le quinte della Comédie Francaise, l’interno buio del villino dove avviene l’incontro della Principessa di Boullion con Maurizio, il sontuoso Palazzo Boullion e la casa di Adriana, di cui vediamo solo un salottino, con un elegante divano e un grande quadro sul muro. Linee morbide e capricciose e un bel trio dei colori, senza dubbio, affascinano l’occhio dello spettatore, ma rimangono soltanto una splendida cornice. Il senso drammaturgico non cambia, come non vengono aggiunti altri significati; Stefanutti scenografo celebra il suo trionfo, mentre Stefanutti regista rivela una mano estremamente delicata, addirittura, poco visibile. I quattro protagonisti, attori e cantanti consumati, sembrano di non aver bisogno di lui, sanno interagire nel modo credibile, e il coro della Fondazione Arena di Verona, si sa, è magnifico.

La scena danzante è risolta nel modo curioso; al posto del Giudizio di Paride viene rappresentata una specie di rievocazione del celebre balletto di Vaclav Niinsky L’Après midi d’un faune, con le scene ed i costumi del celeberrimo Léon Bakst, che a suo tempo, nel 1912, suscitò scandalo per le movenze del protagonista interpretato da Nijinsky stesso, troppo cariche d’erotismo, e per i piedi en dedans delle danzatrici che impersonavano le ninfe. Un altro chiaro riferimento alla belle époque, quindi, e alle atmosfere decadentiste dell’inizio del Novecento, che, però, in conformità allo spirito dell’allestimento, svolge un ruolo puramente decorativo e a tratti assume carattere caricaturale, grazie al tipo di movimento scelto da Michele Cosentino che rende il fauno primitivo e legnoso, e le ninfe troppo manierate.

Tanto splendore per gli occhi, poca ispirazione per la mente, nello spettacolo di Stefanutti. Ma veniamo ai protagonisti. Se c’è Lei, Adriana, la Diva, impersonata da una grande attrice e cantante, il gioco è fatto, poco importa in quale cornice è inserito. Ma la ripresa veronese pecca proprio della mancanza della vera protagonista, della Diva. La cantante cinese Hui He, al debutto nel ruolo della mitica attrice francese, della Diva non ha proprio nulla. Ci rincresce sinceramente scrivere queste parole: Hui He è una grande, grandissima professionista, una cantante seria ed affidabile, capace di “salvare” tante opere in extremis, se ce ne fosse bisogno. Ma la parte di Adriana richiede necessariamente anche altre doti. È l’Attrice, l’Artista, la Diva, la Donna, e alla sua apparizione sul palcoscenico il respiro del pubblico deve cessare. La musica crea un’atmosfera particolare alla sua sortita, che sa quasi di sacro. “Ecco, respiro appena”, intona lei dopo aver provato dei versi, e attacca la famosa aria di entrata nel mito. Al pubblico deve mancare respiro già alla sua apparizione, prima che apra la bocca: questi sono le regole del gioco che ci impone Adriana Lecouvreur. Il ciò non avviene: manca la cantante giusta.

Il soprano cinese dimostra un chiaro disagio nel ruolo, in particolare nei primi due atti, si muove con le evidenti difficoltà, non possiede l’eleganza e la classe nelle movenze, a volte risulta quasi ridicola nelle gestualità, è soprattutto debole quando deve declamare i versi. Il ruolo dell’Attrice con la A maiuscola di cui dicono “Splendida! Portentosa! Musa!.. Diva! Sirena!” richiede troppe qualità che spesso non sono presenti in un’interprete. Ma se la Diva non c’è, tutto cade nel ridicolo. Hui He non si sente pianamente a suo agio anche per quanto riguarda la vocalità della parte, la voce suona appesantita e a tratti affaticata, la linea del canto non è sufficientemente morbida, così la celebre aria di sortita "Io son l’umile ancellarisulta priva della lucentezza che ci si aspetta. Si guadagna il terreno nel terzo e nel quarto atto, il declamato del brano di Fedra è molto più convincente delle parole iniziali e "Poveri fiori" è cantato con tensione minore, intonazione più precisa, cura maggiore della linea e maggior varietà di colori.

Al contrario dell’interprete della protagonista, Fabio Armiliato appare perfettamente a suo agio nel seducente Conte di Sassonia. Sembra che non reciti la parte a lui affidata, ma che sia il vero Maurizio. Un uomo di mondo, spigliato, attraente, brillante, dinamico, versatile, un po' eroe, un po’ cicisbeo, un po’ sinceramente innamorato, il suo Maurizio convince in pieno. Il risultato non è altrettanto brillante sul versante vocale: la voce che non si è mai distinta per il timbro indimenticabile, scorre senza grandissime difficoltà, la dizione è nitida e l’accento è variegato, ma la zona acuta rivela non pochi problemi, a volte creando nell’ascoltatore una sensazione di pericolo.

Carmen Topciu nei panni della Principessa de Boullion è quella dei quattro protagonisti che funziona meglio. La voce è ampia e vellutata, dal bel colore brunito che, però, a tratti risulta troppo brunito e porta a una certa monotonia. Molto bene, però, la "vagabonda stella dell’Oriente", dove la voce esce dalla “gabbia” degli eccessi del colore troppo scuro e vola libera, regalando attimi di una vera gioia grazie a una notevole quantità di sfumature.

Alberto Mastromarino è un buon Michonnet, un ometto apparentemente insignificante dall’animo sensibile e generosa. Recita con disinvoltura e crea un personaggio credibile, superando quasi la distanza che divide i cantanti/attori dal pubblico, grazie a una grande naturalezza. Canta con una buon predisposizione per il declamato e brilla per la forza espressiva, anche se dimostra qualche piccola difficoltà dell’emissione e non ha certo l’acuto facile.

Bravissimi tutti i comprimari, interpreti del quartetto di attori, Massimiliano Catellani – Quinault, Klodian Kacani – Poisson, Cristin Arsenova – Mad.lla Jouvenot, Lorrie Garcia – Mad.lla Dangeville, a cui si aggiunge un elegante Alessandro Abis come Principe di Boullion. Tra tutti si accende una piccola stella, Roberto Covatta nella parte dell’abate Chazeuil, che sfoggia la voce gradevolissima dal colore chiaro, conquista per l’accento davvero impeccabile e colpisce per la recitazione sapiente, ben misurata e piena di un ottimo sense of humor.

Sul podio Massimiliano Stefanelli, evidentemente entusiasta della musica di Cilea, conduce con grande energia l’orchestra dell’Arena di Verona, trova l’equilibrio giusto tra i ritmi serrati delle scene dietro le quinte e i grandi sfoghi lirici dei protagonisti, anche se a volte le sonorità risultano un po’ appesantite, più adatte alle musiche dei grandi compositori del secondo Ottocento. Molto partecipe e tecnicamente impeccabile il coro preparato da Vito Lombardo.

Nonostante che dopo il secondo atto il teatro si sia un po’ svuotato, un successo evidente e applausi generosi per tutti gli interpreti.

foto Ennevi