Trasfigurazione e apoteosi

 di Andrea R. G. Pedrotti

La ripresa dell'allestimento di Otto Schenk riflette in una partitura visiva di luci, gesti e colori il tessuto sinfonico del Singspiel di Beethoven, esaltato da Adam Fischer sul podio. Un'ovazione esplode per la tradizionale esecuzione dell'ouverture Leonore No. 3, ma il trionfo finale coinvolge meritatamente anche il cast vocale, in cui spiccano René Pape, Thomas Johannes Mayer, Brandon Jovanovich e Chen Reiss.

VIENNA, 23 aprile 2019 - Fidelio nacque a poche centinaia di metri dall'odierna Wiener Staatsoper, al tempo in cui Vienna era ancora cinta dalle mura che Francesco Giuseppe avrebbe fatto abbattere, al Theater an der Wien, quando non era stata ancora posata la prima pietra della Hofoper e quella era una zona malsana con un teatro che presentava spettacoli considerati inadatti alla corte imperiale.

Nel Singspiel di Beethoven si manifesta l'attitudine all scrittura sinfonica e cameristica che si riverbera in quella vocale, specialmente nei numeri d'assieme, che appaiono pensati anch'essi come per un organico strumentale. Anche in questo risiede il fascino, e la singolarità, di una partitura che si adatta particolarmente a una sala e a un'orchestra come quella del teatro nazionale viennese, anch'essa nell'anima prettamente votata al respiro sinfonico.

Trionfatore assoluto della serata, infatti, è stato il direttore d'orchestra. È sontuosa la concertazione di Adam Fischer, che sfrutta al meglio le molteplici risorse dinamiche e coloristiche di complessi che non temono rivali. La linea, il fraseggio e la prosodia musicale sono ideali, parimenti alla cura del rapporto fra buca e palcoscenico. In un teatro dalle caratteristiche atipiche (un golfo mistico fra i meno profondi in assoluto), idealmente accostabile a un auditorium, non potevano essere che le pagine sinfoniche a riscuotere il maggior successo. Così si rinnova felicemente la tradizione risalente a Gustav Mahler di inserire l'ouverture Leonore No. 3 nel cambio scena del secondo atto. Fischer qui si esalta, esalta l'orchestra ed esalta tutti i presenti, suscitando un'ovazione che esplode con un autentico boato da stadio,da parte della sala entusiasta.

La regia, tratta da un'originale di Otto Schenk, palesa ancora una volta la straordinaria abilità del regista viennese nello sfruttare colori e luci all'interno della cornice scenica. Non lo si può definire un regista tradizionale solo perché utilizza costumi d'epoca; li utilizza semplicemente perché il suo estro creativo non si affida all'immagine, ma all'imprescindibile fascino della musica. Così, come sempre, Schenk orchestra una danza di prospettive, chiaro-scuri e innumerevoli dettagli minuti, ognuno dei quali è assolutamente indispensabile alla complessità della messa in scena. Viene seguito il libretto, è vero, ma è la musica a guidare la drammaturgia: i colori dei costumi divengono più cupi quando le tinte sonore si fanno più scure. Il primo atto e la prima scena del secondo sono oppressivi, intensi, mentre il grande finale è un'apoteosi di colori, che conducono a un trionfo finale il cui merito va anche al regista.

Nella compagnia vocale giganteggia – e non è una novità - René Pape (Rocco), che si trova ad alternare, anche in giorni consecutivi, Parsifal e Fidelio in due ruoli psicologicamente assai differenti, ma che, da grande artista, riesce a caratterizzare con grande efficacia. Rocco è un personaggio quasi buffo ed è emblematico delle qualità d'attore del basso tedesco notare quanto egli sappia risultare carismatico, non solo nell'imponente saggezza di Gurnemanz o nella malvagità di Mefistofele, ma anche in figure più legate al sentire quotidiano. Vocalmente Pape è inappuntabile: la voce è calda, avvolgente, ben proiettata, arricchita da un fraseggio espressivo.

Anche Thomas Johannes Mayer (Don Pizarro) si è trovato a interpretare tre personaggi in produzioni consecutive alla Wiener Staatsoper (Orest e Amfortas gli altri due, leggi le recensioni di Orest, e Parsifal), tutti con felici risultati. Rispetto alle altre prove, qui era necessario palesare nobiltà e non disordine emotivo. Mayer non perde, tuttavia, la capacità di porgere la frase con accentazione intensa. Ottima anche la prova d'attore.

Brandon Jovanovich (Florestan) ben figura sin dal suo ingresso in scena, grazie al bel controllo dello strumento vocale e all'efficace interpretazione. Convince meno la Leonore di Anne Schwanewillms, brava attrice e musicista precisa, che si distingue positivamente nel registo grave e centrale, ma tende ad aprire eccessivamente il suono in acuto.

Piace la dolcissima Marzelline di Chen Reiss, ben affinata musicalmente, disinvolta scenicamente e gustosa fraseggiatrice.

Completavano il cast Clemens Unterreiner (Don Fernando), Michael Laurenz (Jaquino), Dritan Luca (primo prigioniero) e Ion Ţibrea (secondo prigioniero).

Eccellente la prestazione del coro della Wiener Staatsoper, guidato nell'occasione da Thomas Lang, protagonista di una delle prove più convincenti degli ultimi anni.

La regia, come detto, era firmata da Otto Schenk, le scene di Günther Schneider-Siemssen, i costumi di Leo Bei.

foto Wiener Staatsoper / Michael Pöhn