L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Teatro nel teatro nel teatro

 di  Francesco Lora

Al Festival di Pasqua di Salisburgo, il pretenzioso nuovo allestimento scenico dei Meistersinger di Wagner pecca di incoerenza. La lettura musicale di Christian Thielemann e della Staatskapelle di Dresda, però, è un Olimpo irraggiungibile, intorno al quale si assesta una compagnia di canto ben assortita: Zeppenfeld, Kowaljow, Eröd, Vogt, Kohlhepp, Wagner e Mayer.

SALISBURGO, 22 aprile 2019 – Quando Herbert von Karajan fondò in proprio il Festival di Pasqua di Salisburgo, il suo scopo era anche quello di allenare i Berliner Philharmoniker, orchestra da concerto, alla vita del teatro anziché dell’auditorium, nonché di renderli più smaliziati nel repertorio operistico, e segnatamente in Verdi, Strauss, Puccini, e soprattutto in Wagner. Questo indirizzo di repertorio sopravvive ancora oggi, dopo che i Berliner hanno defezionato al concorrente Festival di Pasqua di Baden-Baden e il loro posto è stato preso dalla Staatskapelle di Dresda: un’orchestra, quest’ultima, che nel Semperoper pratica quotidianamente l’opera in forma scenica, e che per i melomani viaggiatori italiani è un privilegio poter ascoltare ora, a Salisburgo, a ogni Pasqua, con 500 chilometri di strada in meno e per non meno di un’opera e tre concerti a giorni contigui. Dal 13 al 22 aprile, dunque, anche quest’anno Staatskapelle e melomani sono tornati nella loro seconda casa salisburghese (abbonamenti da oltre mille euro a meno di duecento: ma è un investimento di gioia da prendere in considerazione); e il titolo operistico del 2019, in linea con la tradizione wagneriana del festival, è stato Die Meistersinger von Nürnberg.

Sfida tesa tra Berlino e Salisburgo: i Meistersinger sono infatti andati in scena, negli stessi giorni, alla Staatsoper Unter den Linden, diretti da Daniel Barenboim, e al Festspielhaus, diretti da Christian Thielemann, ossia dall’altro concertatore che più di tutti al mondo conosce ogni più riposta piega di quella colossale partitura. Nelle due recite poste a inaugurazione e conclusione del festival, la lettura di quest’ultimo è un invito a chiudere gli occhi sulla scena e quasi a dimenticare le voci che si appoggiano all’emancipato discorso dell’orchestra: con Thielemann e nei Meistersinger, la Staatskapelle è un capolavoro di esplosivi entusiasmi estroversi e dolenti ripiegamenti intimi, non solo rispettivamente nei preludi agli atti I e III, che da opposti affetti sono innervati, ma a ogni passo dell’opera, con un virtuosismo che è soprattutto espressivo – attoriale, verrebbe da dire –, basato su un costante gioco di ombre, luci, legato a mobilissima tensione e disuguaglianze agogiche, capace infine di preservare il carattere pur sempre di commedia di questo maestoso capolavoro. L’ultima caratteristica accogliere benevolmente, in un Olimpo irraggiungibile, il simpatico coro della Staatsoper di Dresda e il salisburghese Bachchor venuto a dargli manforte.

Non all’altezza della situazione musicale si pone allora il nuovo allestimento scenico con regìa di Jens-Daniel Herzog, scene di Mathis Neidhardt, costumi di Sibylle Gädeke, luci di Fabio Antoci e coreografia di Ramses Sigl. Il loro spettacolo non è provocatorio, come qualcuno temeva alla sola lettura di nomi con consonanti germanicamente aguzze, bensì insicuro, maldestro, incoerente. Essi tentano una revisione drammaturgica secondo l’ormai esausta via del teatro nel teatro; anzi del teatro nel teatro nel teatro: il boccascena scenografico costruito dentro quello del Festspielhaus è infatti ricalcato su quello, ben riconoscibile, del Semperoper di Dresda, ossia il teatro dove questo allestimento andrà a invecchiare dopo il debutto. Nella lettura in oggetto si stabilisce che l’azione dei Meistersinger sia la vita in un odierno teatro d’opera, tra uffici di produzione, consigli di amministrazione, beghe sindacali, prove di costumi e audizioni di interpreti. Ma all’opera di Wagner questo vestito sta stretto: se ne ha prova quando, nell’atto II, lo Hans Sachs fin lì visto nei panni di un regista torna – persa la congruenza ma rimasta la necessità: libretto e partitura non lasciano scampo – a fare il calzolaio armato di risonante martello.

Ben assortita ma non da annali la compagnia di canto: si fa quel che si può con l’offerta attuale di voci wagneriane, mentre sotto Pasqua già ci se le se contende per i vari Parsifal. Georg Zeppenfeld è un Sachs, ottimo, con paterna cordialità di modi posta a corazza di un delicato rovello interiore; ma in una parte di tanto spessore ci si aspetterebbe una voce non solo ben educata, bensì anche smaltata, risonante, preziosa. Tali ultime qualità si ammirano per contro nel Veit Pogner di Vitalij Kowaljow, mentre il Sixtus Beckmesser di Adrian Eröd trionfa per untuoso e livido macchiettismo. Inedito l’equilibrio tra i tenori principali: Klaus Florian Vogt, come Walther von Stolzing, è il quasi neologistico tenore di grazia wagneriano con garbo evanescente, timbro bianco ed emissione volatile, foriero non di ormoni ma di un’indubbia eleganza; più maschio e fibroso, invece, Sebastian Kohlhepp nei panni solitamente petulanti di David. Autentico e inconsueto odor di femmina nell’Eva di Jacquelyn Wagner, lirica, matura e tutt’altro che disposta a rimanere premio passivo di un concorso fra cantori. Un lusso sfacciato è la presenza di Christa Mayer come Magdalene, e altrettanto sfarzo vocale si trova nel Guardiano di Jongmin Park.

foto Monika Ritterhaus


 

 

 
 
 

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