L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Amore e morte

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ospita un’itinerante Semele di Händel: quella che Sir John Eliot Gardiner e i complessi barocchi da lui stesso fondati, gli English Baroque Soloists e il Monteverdi Choir, stanno portando in tournée in Europa con grande successo. Una Semele che è del pari osannata anche dal pubblico romano.

ROMA, 8 maggio 2019 – Dopo uno straordinario concerto berlioziano (leggi la recensione), Sir John Eliot Gardiner torna a calcare il podio della sala Santa Cecilia in un concerto che vede l’esecuzione in forma semiscenica della Semele di Georg Friedrich Händel: Gardiner, assieme ai prestigiosi English Baroque Soloists e al Monteverdi Choir (complessi rinomati e specializzati proprio nel repertorio barocco e classico, da lui stesso fondati), ha portato la Semele in tutta Europa – passando anche per Milano. È ora giunto il momento della sua recita romana.

Lo spettacolo, presentato in forma semiscenica, è accattivante, a tratti anche divertente (i cantanti si prestano talvolta a gag che coinvolgono anche i musicisti): merito della regia di Thomas Guthrie, che gioca con diverse cromature di luci (Rick Fischer), ma anche con oggetti scenici (per esempio, il sofà su cui si adagiano mollemente Semele e Giove nell’incantato giardino), per creare sempre atmosfere che immergano l’ascoltatore nella tragica storia dell’eroina tebana. Il coro e gli interpreti indossano costumi moderni che alludono (specialmente i femminili) a una classicità asciutta e sacrale – i costumi sono apprestati da Patricia Hofstede. Insomma, uno spettacolo ben rodato che ha, naturalmente, in Gardiner e nei complessi barocchi, nonché negli interpreti specialisti del settore, il fiore all’occhiello. Fin dall’ouverture, Gardiner si distingue per la consueta precisione e pulizia sonora, coniugata a un brio ritmico che esalta gli impasti strumentali della pur esigua orchestrazione barocca. Gardiner sa ben dirigere le voci del Monteverdi Choir, che dà prova del suo talento in più di un’occasione (mi riferisco ai cori imenaici finali, ma anche a quelli atterriti della fine del I atto; o alle dolci melodie che accompagnano i furtivi amori di Semele e Giove); e sa anche ben dirigere la compagine dei solisti, che accompagna con immensa perizia e talento. Il suo tocco, il suo gusto è quello di un barocchista di vaglia, uno fra i migliori al mondo; un artista in grado di far rivivere, con la sensibilità filologica di chi conosce perfettamente il funzionamento di una partitura del ‘700, un’opera/oratorio come Semele nel migliore dei modi possibili.

Il cast dei cantanti è di prim’ordine e si tratta, naturalmente a vario titolo e approfondimento, di specialisti del settore. Semele è cantata dalla bella e talentuosa Louise Alder, che oltre a possedere un’invidiabile presenza scenica, è dotata inoltre di una voce melliflua, duttile, piena e raggiante, che le consente di destreggiarsi fra le variazioni e le fioriture della scrittura di Händel mantenendo una linea uniforme e invidiabilmente seducente. Tutte le sue arie sono, dunque, ben caratterizzate e magnificamente cantate: ricorderei almeno «Oh Jove! In pity teach me which to choose», dove l’interprete esprime tutta la sua ansia, come pure l’incantevole «Endless pleasure, endless love», a fior di labbra, e «Oh sleep, why dost thou leave me», dove dopo una messa di voce con trillo culla un’ipnotica melodia. Hugo Hymas canta il ruolo di Giove. Benché dotato di una voce poco potente (lo si compari, per esempio, alla storica performance di Rockwell Blake), Hymas possiede un timbro brunito di incredibile sensualità, che funge bene nella parte di Giove, per la quale si può inoltre fregiare di un physique du rôle ben adatto. Le sue arie più celebri si concentrano nel II atto: l’energica e virtuosistica «I must with speed amuse her», ma soprattutto la famosa «Where’re you walk», dove alla connaturata sensualità vocale Hymas unisce pure un canto a fior di labbra, che sortisce un notevole effetto. Dalla voce stentorea, profonda e penetrante, Gianluca Buratto canta uno smagliante Cadmus e un altrettanto incredibile Somnus: in quest’ultimo ruolo dà i suoi risultati migliori, in particolare nella famosa aria ‘sonnolente’ del dio, dove crea un’atmosfera soporifera («Leave me, loath light»). Lucile Richardot – esperta di musica antica – è una delle migliori cantanti sul palco: la sua voce, scura e corposa, solida e versatile, le rende assai facile passare dal ruolo di Ino, vittima (almeno inizialmente) dell’amore per il promesso sposo della sorella, a quello della vendicativa dea Giunone, in cui si profonde anche in qualche passaggio comico di sicuro effetto. Indimenticabile la sua lettura della struggente «Turn, hopeless lover», nei panni di Ino; come pure della spumeggiante «Hence, hence, Iris away», irta di fioriture che incarnano musicalmente tutta l’ira non sfogata della dea Giunone. Carlo Vistoli – che viene da una buona performance all’Opera di Roma nel ruolo del tracio cantore dell’Orfeo di Gluck (leggi la recensione) – canta un buon Atamante, cogliendone soprattutto il lato di personaggio indefessamente innamorato. Oltre alle sue arie in apertura e chiusura d’opera, dedicate agli imminenti sposalizi con Semele prima e Ino poi, arie ricche di gioia (di particolare bellezza l’ultima, «Despair no more shall wound me»), Vistoli delizia il pubblico con la sua voce tersa anche nella toccante «Your tuneful voice». Eccellenti anche i comprimari: Emily Owen (Iris), Angela Hicks (Cupido), Peter Davoren (Apollo), Alison Ponsford-Hill (Endless Pleasure), Daniel D’Souza (High Priest). Gli applausi finali sono generosi e ricompensano degnamente l’eccellente livello di questa Semele.

Foto: Musacchio, Ianniello & Pasqualini


 

 

 
 
 

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