Il baule delle primedonne

 di Francesco Lora

Krassimira Stoyanova e Sabine Devieilhe regolano magistralmente le sorti di Ariadne auf Naxos al Teatro alla Scala: eccellente è il loro corteggio femminile, mentre più modesto è quello maschile. Educata e forbita, ma non memorabile, la direzione di Franz Welser-Möst, mentre volontà e risorse del nuovo allestimento scenico svaniscono presto.

MILANO, 5 maggio 2019 – Da quando è Alexander Pereira a fare il cartellone, Richard Strauss è viepiù di casa al Teatro alla Scala: nel 2016 e nel 2018 sono andati in scena prima Der Rosenkavalier e poi Elektra; alla fine della stagione sarà la volta della rarissima Ägyptische Helena; e non è più un segreto che nella prossima figurerà Salome, con la direzione di Riccardo Chailly e la regìa di Damiano Michieletto. Frattanto, per sei recite dal 23 aprile al 5 maggio si è fatto spazio anche un nuovo allestimento di Ariadne auf Naxos, e varrà la pena di tornare anche alle distaccate recite del 19 e 22 giugno, non foss’altro che per ascoltare una differente Primadonna e una differente Zerbinetta, ossia due soprani di alta caratura quali Tamara Wilson e Daniela Fally. Già nella prima serie di recite, tuttavia, le due principali interpreti femminili sono il vanto dello spettacolo.

Lo è Krassimira Stoyanova nei panni metateatrali della cantatrice seria, con quella pienezza di corpo e timbro, e con quella flessibilità di modulazione, che percorrono l’ampia estensione da un lucente registro acuto a un saldo registro centrale, fino a un registro di petto ove si ammira un affondo poderoso senza tema di perdere nobiltà: il monologo di Ariadne e il duetto conclusivo mostrano quale invidiabile dote sia, nel soprano bulgaro, fondere in uno stesso patrimonio vocale il rigore germanico e la comunicativa latina. Eccellente è del pari Sabine Devieilhe nei panni della complementare primadonna buffa, grazie alla smaliziata vaporosità dell’emissione, allo scoppiettante champagne del porgere e alla simpatica disinvoltura del gioco scenico: a chi abbia esperito dal vivo la Zerbinetta di Edita Gruberová e Diana Damrau, capita in via eccezionale di non doversi lamentare.

Una soddisfazione dopo l’altra accompagna la teoria delle altre signore in locandina. Daniela Sindram, nella parte en travesti del Compositore, non reca un nome tarato sul lusso della Scala, ma intona e recita tutto con una tale proprietà di mezzi e una tale dedizione di stile da non far eccepire alcunché. Dal canto loro, la Naiade di Christina Gansch, la Driade di Anna-Doris Capitelli e l’Eco di Regula Mühlemann – uno sfarzo inaudito, quest’ultimo: a tenere una parte marginale dal punto di vista drammatico, ma decisiva da quello musicale, è infatti uno tra i più radiosi giovani soprani del contesto germanofono – incantano tutte e tre nei loro interventi individuali non meno che nel calibrato terzettare.

Più ruvido è il comparto maschile, a partire da Michael König come fibroso Tenore e generico Bacchus: la parte meriterebbe ben altro impatto canoro e agio scenico, tanto più nell’ottica del già ricordato gioco metateatrale. Si godono poi il personale rigoglio vocale e l’innata cordialità attoriale di Markus Werba, nella parte del Maestro di musica. Ma non troppo brillante è il quartetto delle maschere: Thomas Tatzl come Harlekin, Krešimir Spicer come Scaramuccio, Tobias Kehrer come Truffaldin e Pavel Kolgatin come Brighella. A rimettere i conti in pari, così, è Pereira in persona nella livrea del Maggiordomo: sostenendo a divertito titolo gratuito questo ruolo soltanto parlato – ne è ormai un veterano, tra Austria e Svizzera – il sovrintendente della Scala riesce a innescare la complicità con il pubblico, cosa agevole a Vienna o Zurigo, ma tutt’altro che automatica innanzi alla più fredda platea milanese.

E freddissimi si resta davanti alla concertazione di Franz Welser-Möst: educata e forbita finché si vuole, e atta a confermare il valore tecnico nonché l’intrinseca morbidezza dell’orchestra scaligera, ma ben scarna di idee e di brio teatrale. A lui spetterà anche la prossima Ägyptische Helena, e tanto più in vista di quella gli converrà dotarsi del temperamento qui – per l’ennesima volta: e anche alla Konzerthaus di Vienna, una settimana dopo, nell’immane Ottava di Mahler – rimasto affatto latitante.

L’ultimo gradino rimane tuttavia al nuovo allestimento con regìa di Frederic Wake-Walker, scene e vestiario di Jamie Vartan, luci di Marco Filibeck e video di Sylwester Łuczak e Ula Milanowska. Si contano tre idee gradevoli: il Maggiordono-Pereira che esce spiritosamente in scena dal palco della sovrintendenza; il Compositore che termina il prologo simulando un patetico suicidio; Ariadne che dopo il monologo si chiude come una perla dentro le valve di una conchiglia. Tolte le idee isolate, però, manca la realizzazione della drammaturgia originale come pure l’instaurazione di una drammaturgia ripensata. Nell’atto che segue al prologo si assiste anzi a un tracollo di volontà e risorse: quella scena popolata di strutture e proiezioni astratte, per esempio, significa alla fin fine la pilatesca scelta di un non-luogo e l’astensione da una precisa intenzione. Quell’intenzione che la primadonna seria e la primadonna buffa sanno recare, da sole, nel loro baule.

foto Brescia Amisano