L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ancor le antiche maschere

 di Antonino Trotta

Al Teatro Carlo Felice di Genova Sonia Ganassi e Carlos Álvarez giganteggiano nel nuovo allestimento del dittico Cavalleria rusticana/ Pagliacci firmato da Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi. La compagnia vocale ben assortita assicura il successo della recita nonostante la direzione inanimata di Paolo Arrivabeni.

Genova, 26 Maggio 2019 – Lì, nella Magna Grecia e territori limitrofi, tutto sembra nascere all’interno di un semicerchio scalcinato, altare dove consacrare liturgie, arena in cui osservare, inerti, lo spettacolo ferino della vita. Se c’è qualcosa che da Cavalleria conduce a Pagliacci, nell’intimo della loro drammaturgia, è il tema della quotidianità trasformata in intrattenimento, posta al centro del palcoscenico e fatta oggetto dello sguardo, ora attonito, ora omertoso, della folla. Del resto – l’etimologia lo suggerisce – il teatro è il luogo del theáomai, ossia dello “stare a guardare”. In Pagliacci il confine tra realtà e finzione si assottiglia lentamente, fino a lacerarsi del tutto, sotto gli occhi increduli di una platea incapace di intervenire; in Cavalleria rusticana, invece,la tirannide dell’opinione pubblica, in cui la difesa dell’onore personale e la vendetta privata sono istituzioni quasi giuridiche, trasforma il vero in un appuntamento teatrale a cui assistere senza voler, o poter, batter ciglio. Recita il famoso adagio, «chi si fa i fatti suoi, campa cent’anni». Eh già. Eppure, tra le gradinate che abbracciano i coreuti, non mancano i fanatismi religiosi, riti arcaici che mescolano sacro e profano, c’è chi prega prima di entrare in chiesa, dalla facciata scrostata come la vocazione alla fede, o chi bacia un rosario: è proprio vero che nel nome di un dio si consumano spesso le tragedie peggiori.

E la tragedia, quella buona, nel nuovo allestimento del celebre dittico Mascagni-Leoncavallo firmato dai Teatrialchemici (Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi) per il Teatro Carlo Felice di Genova e coprodotto con la Fondazione del Maggio Musicale Fiorentino, fa da scrigno a entrambe le storie, con le belle scenografie di Federica Parolini massimo comune divisore tra Cavalleria e Pagliacci: a ridosso del koilon, la cavea nel teatro romano, si erge desolante lo skyline di una cittadina diroccata, quasi l’azione fosse stata trasposta al secondo dopoguerra. «Una città di carta vulnerabile ed effimera, come ormai lo sono tutte», si legge nelle note di regia, «che vive solo grazie alla verità delle relazioni umane». Si, quelle degli altri. Delle due messinscene, la prima, forte di un sostrato letterario più fertile, stuzzica maggiormente la fantasia di chi osserva, soprattutto durante la pagina corale del «Regina coeli». E se le maschere demoniache, inequivocabile citazione del teatro greco, sottolineano la spettacolarizzazione del culto, il lavaggio con le ceneri del sudario di Cristo o chicchessia – non ci si sente orfani dell’assenza, almeno nel discorso visivo, di crocifissi –, issato a tendone per accogliere il popolo in preghiera, sembra ammiccare in filigrana al proverbio «i panni sporchi si lavano in famiglia». Al di là delle variazioni su tema, comunque, Di Ganci e Giacomazzi disegnano una Cavalleria senza colpi di scena, come sempre si è fatta e come chissà quante altre si farà. Solo il personaggio di mamma Lucia, a dire il vero, mostra un pizzico di originalità: molto più sensibile, meno matriarcale, persino premurosa con Santuzza. Una piccola, forse insignificante eccezione, nell’ordinarietà della regola, che umanizza uno spaccato sociale altrimenti troppo soffocato da livori e conflitti. Un discorso simile vale per Pagliacci, scenicamente più immediata e appagante giacché il gioco della pantomima – dove i trespoli su cui recitano le maschere si confondo con i camerini, accentuano così il crollo di ogni divisione –, grazie anche ai bei costumi di Agnese Rabatti e alle enfatizzanti luci di Luigi Biondi, funziona davvero benissimo. Va detto che il velario del circo sotto cui si consumerà il duplice delitto acquista, nel parallelismo con la precedente sindone, tutt’altro significato, però, anche qui, non si aggiungono pietre alla torre d’avorio della tradizione. Direbbe Leoncavallo, «in iscena ancor le antiche maschere mette l'autore».

Se il teatro è il Leitmotiv dell’intera produzione, non potevano non imporsi nella recita due campioni del canto e della recitazione. Sonia Ganassi ci regala una donna logora, straziata dal dolore e dalla gelosia, che non esita a calpestare la propria dignità, improvvisando una scena di irrequieta seduzione, pur di stringere ancora quel legaccio sfilacciato ormai annodato a mo’ di cappio. La sua Santuzza è profondamente emozionante perché sinceramente animata e a questa linfa attingono gli accenti del fraseggio, appassionato e coinvolgente. Così, anche in un repertorio fuori dalla sua consuetudine, la vocalità si conserva rotonda, il registro acuto limpido e fendete, quello grave incisivo. Una fortuna poterla rivedere, nello stesso ruolo, tra pochi giorno a Torino.

Secondo, solo per cavalleria e ordine di rappresentazione, Carlos Álvarez, che, benché travestito da pollo, fa la figura, al solito, dello stallone purosangue. È un artista di razza pregiatissima, Álvarez, e il carisma, la sensazione di insaziabilità che risveglia quando è in scena, lo rende assoluto protagonista dell’opera di Leoncavallo. La capacità di passare da un lato all’altro del sipario, in quello che alla fine è un doppio ruolo, Tonio e Tonio-Prologo, si riflette appieno nella cura dell’inflessione della parola, nell’espressione forbita della frase, nel colore mutevole della voce. Statuario e istrionico nella sezione incoativa – con una linea inizialmente velata appena da un po’ di raucedine –, s’inabissa nei meandri dell’animo umano per risvegliare un omuncolo cinico e spregevole, a tratti un’involuzione del suo Rigoletto, malvagio fino al midollo. Un essere viscido, appunto, che agisce solo per istinto sessuale, lecca godurioso lo sputo di Nedda ma mai si fa da parte per leccare le proprie ferite. E il congedo, restituito – meno male! – a Tonio, si staglia tonitruante senza il minimo accenno di risentimento. Abominevole fino alla fine. Da brividi.

Per Diego Torre, Turiddu e Canio, la cronaca non si discosta tanto da quella della Tosca di due settimana fa: voce potente, timbro ordinario, con qualche acuto periclitante e un canto troppo avaro di dinamiche. Tra Turiddu e Canio, nonostante la comprensibile stanchezza – in Tosca ha anche coperto praticamente tutte le recite –, l’ultimo è quello che risulta meglio vissuto, con una partecipazione scenica più attiva e quantomeno un accenno di approfondimento interpretativo nel finale.

Donata D’Annunzio Lombardi un po’ fatica a trovare grazia e freschezza nella canzone di Nedda, invero laboriosa. Si riscatta però nel duetto con Silvio, dove la cantante riaffiora in tutta la sua varietà di dinamiche – molto belle le smorzature –, precisione e lama in acuto, grande intensità negli accenti e buona qualità del legato. La presenza scenica è poi elegante e se la recitazione appare talvolta manierata, il personaggio risulta impreziosito dall’allure della primadonna.

Gevorg Hakobyan, Alfio, ha a disposizione uno strumento imponente ma si intravede qualche ruvidezza nell’emissione; il giovanissimo Matteo Roma, Peppe, non nasconde l’entusiasmo di chi si avvicina a questa magnifica professione, canta con gusto per la sfumatura, attenzione al fraseggio e alla proiezione della voce. Completano correttamente il cast Carlotta Vichi (mamma Lucia), Francesco Verna (Silvio), Giuseppina Piunti (Lola), Giuliano Petouchoff e Matteo Armanino (contadini). Buona la prova del Coro e del Coro di Voci Bianche del Teatro Carlo Felice, istruiti rispettivamente dai maestri Francesco Aliberti e Gino Tanasini.

Venenum in cauda. La bacchetta algida di Paolo Arrivabeni, alla guida dell’Orchestra del Teatro Carlo Felice, organizza una concertazione semplicemente funzionale alla tenuta della recita. I tempi staccati dal podio sono comodi, la tavolozza coloristica ricca, la relazione con il palcoscenico, fatta eccezione per alcuni episodi corali, rassicurante. Eppure non esiste un momento in cui il pensiero musicale si traduca in emozione o l’inchiostro in poesia: il celebre intermezzo della Cavalleria, ad esempio, è impietrito da una rigidezza ritmica che non concede il minimo respiro. Ciò non significa, ovviamente, sbrodolare di battuta in battuta per illanguidire il dettato e relegare la musica della giovane scuola nella gabbia di vizi e vezzi, ma, all’interno della misura – Chopin lo insegna – c’è un mondo da scoprire e descrivere.

Per tutti applausi scroscianti e calorosi.

foto Marcello Orselli


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