Involucro e telaio

 di Roberta Pedrotti

Continua a piacere la concertazione di Valerio Galli e a lasciare perplessi la produzione di Fabio Cherstich/AES+F per Turandot al Comunale di Bologna. Meno convincente rispetto alla prima la compagnia alternativa, comunque efficace soprattutto sul versante femminile.

BOLOGNA, 29 maggio 2019 - Cambiando il cast, cambiano anche gli equilibri in questa Turandot bilanciata fra due poli opposti, non il gelo e il fuoco, ma la messa in scena e la concertazione: superficie e sostanza, un luccicante involucro e un telaio d'acciaio inossidabile. Fabio Cherstich e il collettivo AES+F continuano a confondere (e annoiare alla lunga, ma anche alla breve) con quel moto perpetuo in tecnicolor, quel dondolare di donne gatto, donne pianta, donnoni sagomati senza troppa grazia, vittime e stupratori o amanti avvinghiati in scatti da vecchi animatronics. Talvolta si ridacchia anche, come per i pugnali laser delle guardie imperiali che sembrano bacchette luminose per le segnalazioni aeroportuali e all'occorrenza sono torce, all'occorrenza armi letali con varie modalità d'utilizzo. D'altro canto c'è Valerio Galli che plasma un suono sempre perfettamente a fuoco e controllato, anche nei momenti di violenza, di maestà e di tripudio. Il suo è un Puccini accattivante e coinvolgente, ma non per questo ammiccante e appiattito nel facile effetto e nell'abbandono melenso. Anzi, se una compagnia di canto meno interessante della sera precedente attutisce il riscatto dell'udito rispetto alla vista, anche in questo caso le sollecitazioni della bacchetta per la miglior resa possibile risultano palpabili.

Notevole, per esempio, l'impegno musicale profuso nel ricercare la cura del fraseggio anche con una vocalità disomogenea come quella di Antonello Palombi, che alterna note ampie e incisive, ancorché un po' ruvide, ad altre meno proiettate e timbrate, sì da incrinare anche il legato e la continuità dell'emissione. Più compatta appare la voce di Ana Lucrecia Garcìa, una Turandot senz'altro vigorosa e sonora, anche se un po' spinta e monocorde. La migliore risulta, così, la Liù di Francesca Sassu, forte di una voce fresca e ben emessa e di una franca partecipazione emotiva che fanno ben sperare per un ulteriore affinamento di colori e dinamiche, per la tornitura di un fraseggio che potrà farsi sempre più personale. Fa buona figura anche il Timur di Alessandro Abis e confermano le prove efficaci della prima l'Altoum di Bruno Lazzaretti e il Mandarino di Nicolò Ceriani. Nel terzetto rinnovato delle maschere (cui è riservata forse l'unica trovata registica oltre alla resurrezione di Liù: la nostalgia di casette, laghetti e foreste e scatenata da un'iniezione, si presume di un potente allucingeno) Sergio Vitale spicca rispetto ai tenori Orlando Polidoro e Pietro Picone; completano il cast questa sera il principe di Persia di Andrea Taboga e le Ancelle di Rosa Guarracino e Maria Luce Erard (a proposito: ottima cosa che il teatro specifichi anche interpreti e alternanze in queste parti talvolta trascurate dall locandine). Anche l'Orchestra, il coro preparato da Alberto Malazzi, le voci bianche sotto la guida di Alhambra Superchi e i figuranti della scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone confermano la buona impressione destata alla prima. Per dovere di cronaca citiamo anche il progetto luci di Marco Giusti, anche se l'idea resta quella che, se di progetto luci si può parlare, questo si limitasse a rendere visibili gli interpreti senza interferire con gli schermi.

Il pubblico, fra cui molti giovani e studenti che hanno entusiasticamente approfittato delle promozioni a loro dedicate, non interrompe mai lo spettacolo a scena aperta, ma al termine tributa un'accoglienza assai calorosa per tutti gli interpreti.