I quarant’anni di Aida

 di Francesco Lora

Al Teatro La Fenice tornano il capolavoro verdiano e un allestimento vecchiotto, con la regìa del compianto Mario Bolognini. La parte musicale non si impone per coesione complessiva, ma vi si colgono i singoli pregi di interpreti attendibili, dalla direzione di Riccardo Frizza al canto di Francesco Meli, Irene Roberts e Roberto Frontali in particolare.

VENEZIA, 26 maggio 2019 – L’Aida di Verdi secondo la regìa di Mario Bolognini, le scene di Mario Ceroli e i costumi di Aldo Buti fa parte della storia del Teatro La Fenice da oltre quarant’anni: vi è stata creata nel 1978 (intonata da Carlo Bergonzi e diretta da Giuseppe Sinopoli), ripresa nell’84 (Roberto Scandiuzzi stava in seconda compagnia) e infine recuperata nel ’98 (durante la ricostruzione e l’esilio al Tronchetto). Con otto recite dal 18 maggio al 1° giugno, eccola ancora nel massimo teatro veneto. Un tempo doveva sapere di nuovo, grazie al suo impianto tradizionale ma ripulito da orpelli oleografici; oggi sa affettuosamente di vetusto, sia poiché il gusto attuale chiederebbe un’ulteriore ripulitura, sia poiché alcune disattenzioni ne minano la tenuta. Una tra tutte: nell’atto I Radamès sogna di essere scelto come condottiero dell’esercito egizio; quando il Re lo insignisce del ruolo, Aida, Amneris ed egli stesso trasaliscono; ma nello spettacolo veneziano il personaggio si trova non già tra la folla della corte, in fremente attesa, bensì già pronto, accanto a faraone e principessa, bello di un vertice gerarchico estraneo alla logica teatrale.

Nella concertazione di Riccardo Frizza si riconosce il direttore che viene dall’esperienza nel melodramma romantico di Donizetti e Bellini, e non già dal virtuosismo orchestrale del secondo Ottocento con i suoi apporti francesi e tedeschi (nonché dell’ultimo Verdi e del giovane Puccini). Al cospetto dell’orchestra e del coro della Fenice, nel loro consueto gran spolvero tecnico, ne deriva una lettura chiara e serena, poiché non eccitata da inneschi intellettualistici, e condotta su tempi un poco indugianti, a vantaggio del respiro fisiologico dei cantanti. A tenere per la prima volta la parte eponima è Roberta Mantegna: vocalità corretta ma un poco leggera, aspretta e squittente in faccia alla tradizione esecutiva, che in un’altra epoca l’avrebbe piuttosto indirizzata alla Gilda di Rigoletto, e un bagaglio espressivo che suggerisce un’adolescente ingenua anziché la canonica eroina tragica. In Francesco Meli si sente invece che ha studiato la parte con Riccardo Muti: soprassedendo su qualche affaticamento o superficialità, suo è il più sfumato Radamès oggi alle scene, grazie al fraseggio ispirato, al pregio del legato e alla comunicativa timbrica.

Chi intasca il trionfo, secondo copione, è l’Amneris di turno. Si tratta della statunitense Irene Roberts, qui all’esordio nella parte e in Italia: un mezzosoprano tanto più ammirevole per il fatto di abbinare a mezzi validi, ma comuni, un’interpretazione tenuta distante dalla facile tentazione di strafare; con delicatezza di modi, umanità di eloquio e definitiva credibilità, ella restituisce il messaggio perpetuo di una donna potente e disperata anziché la retorica areniana di una principessa arrogante e guastafeste. Chi invece mostra con scontatezza i frutti di una carriera matura è l’Amonasro di Roberto Frontali, con quel timbro inconfondibile e quella proterva scorza espressiva che nasconde un cuore di padre. Meno prezioso è il Ramfis di Riccardo Zanellato: al ruolo del sommo sacerdote sarebbero confacenti maggiori lucentezza, risonanza e autorevolezza. Auspicii che latitano anche nel Re di Mattia Denti: altrettanto onesto, ma perfetto per evocare il verdiano inchino del trono all’altare. Sorprese nel comprimariato: se la Sacerdotessa di Rosanna Lo Greco è puntualissima, un capolavoro è lo scolpito accento di Antonello Ceron come Messaggero.

foto Michele Crosera