S'appressan gl'istanti

 di  Andrea R. G. Pedrotti

Profonda, affascinante lettura per l'opera verdiana alla Semperoper di Dresda con la direzione di Omer Meir Wellber e la regia di David Bösch. La forma non ottimale e l'abbandono, dopo i primi due atti, di Placido Domingo interprete del ruolo eponimo non pregiudica l'esito della serata, che si avvale anche delle buone prove di Saioa Hernández, Massimo Giordano e Vitalij Kowaljow.

Leggi anche l'intervista a Omer Meir Wellber

DRESDA, 5 giugno 2019 - “S'appressan gl'istanti\ d'un'ira fatale;\ sui muti sembianti\ già piomba il terror!\ Le folgori intorno\ già schiudono l'ale!...\ apprestano un giorno\ di lutto e squallor!” A partire dal principio della sinfonia e ancor più nei momenti precedenti al “Terrore generale” che Temistocle Solera comanda nelle indicazioni del libretto, prima ancora che Nabucco pronunzi “S'appressan” si avverte come Omer Meir Wellber avesse previsto l'ingresso del coro e l'assieme dei personaggi atterriti dalla manifestazione dell'Ira fatale, non ancora compiuta. È quella frazione di secondo che alberga nella mente di ognuno di noi, prima che il pensiero si strutturi nel codice della parola.

Se nella mente stava la sensazione di terrore per pochi istanti, prima che Dio manifestasse la sua ira, è logica consequenzialità che l'ira stessa avesse sua genesi in qualcosa che aleggiava ancor prima. È un crescendo emotivo che vede Nabucco enunciare il periodo con palese turbamento, Abigaille osservatrice attenta, come pronta alla sfida e Ismaele quasi con tono liturgico nell'osservazione della manifestazione della potenza del Dio dei Padri che, unico ebreo fra i tre, solo poteva conoscere.

Era inevitabile che, a quel punto, Wellber accorciasse leggermente la pausa, prima dell'ingresso del coro, che compie il logico percorso della sequenzialità paradigmatica della linea musicale, conferendo un tono, anticipato a sua volta da un accento leggermente più marcato del consueto, che conduce alla magnifica solennità dell'assieme. La parola, il verbo, Dio stesso è profetico per definizione e, mediante il suo nome (d'altra parte Hashem in ebraico oltre a essere uno degli appellativi di Dio, significa anche “nome”), detta il principio del percorso - che è il significato della parola “ebreo”. Il principio è dato dal numero “1” che, sempre in ebraico, si indica con la “Alef”, ossia la prima lettera dell'alfabeto, che ordina il percorso della vita al popolo Ebreo.

Pensiamo, tuttavia, che la Torah non inizia con “Alef”, ma con “Beth” (la seconda lettera dell'alfabeto ebraico), perché il principio stava prima: è il senso profetico che alberga nell'attesa dell'Ira fatale. Questa è una delle basi della regia di David Bösch che, per accentuare il sentore profetico contenuto in un'opera dalla drammaturgia debolissima, evidenzia i quadri che si susseguono con la proiezione delle parole dei profeti scritte nel Tanakh (la Bibbia ebraica), ritrovando in esse eco nelle vicende di Nabucco. D'altra parte Dio non può avere forma perché traccia un percorso che va interpretato, ma in quanto forza scatenante di tale cammino, egli è solo ed è proprio la solitudine, applicata alla follia, un altro degli elementi chiave della messa in scena. Nabucco è sempre solo, come ha avuto modo di sottolinearci anche Wellber in un'intervista di prossima pubblicazione, e nella regia, infatti, ritroviamo un momento emblematico di questa solitudine, quando il protagonista canta “Dio di Giuda” sdraiato a letto. Sempre citando il m° Wellber: “ciò che accomuna i folli ai sani di mente è che, quando andiamo a letto, siamo tutti soli”. Se ci riflettiamo, aggiungiamo noi, chi mai può esser più solo di una divinità monoteistica, unica, primaria?

Se la solitudine crea disagio a chi fu creato, secondo la liturgia, a sua immagine e somiglianza, perché mai ci si dovrebbe stupire se, talvolta, anche Dio ha i suoi momenti di nervosismo? Oltretutto si ritrova a dover tracciare la via a una moltitudine la quale offre innumerevoli interpretazioni della via medesima. La suddetta moltitudine, se la prende sistematicamente con lui, solo, se le cose vanno male, spesso aggirando l'autocritica e, nell'unico momento in cui Dio si deve occupare d'altro, gli stessi decidono, per esempio, di costruire un idolo d'oro e sostituirlo nell'adorazione; figuriamoci, poi, se un re Babilonese, dopo aver deportato il suo popolo eletto, decide di autoproclamarsi divinità a sua volta. L'ira fatale, più che giustificata, è attesa, come detto, da principio. È questa imminenza angosciante della profezia che trasforma Dio medesimo in un Perturbante, che ovviamente provoca timore, proprio nell'attesa che scateni la sua potenza. Il concetto di Perturbante, evidente nel finale II, è uno dei tanti punti di contatto con un'altra opera di soggetto babilonese: Semiramide di Gioachino Rossini, tanto ammirata da Giuseppe Verdi, che la rammenta anche nella scena di follia di Nabucco, strutturalmente sovrapponibile alla pazzia di Assur. Nel finale del I atto di Semiramide, il perturbante non è Dio, come in Nabucco, ma l'ombra di Nino. Anche lì una profezia, ossia la riconquista del trono da parte dell'erede legittimo e vendetta contro gli usurpatori.

Omer Meir Wellber connota sovente la partitura d'un afflato belcantistico che richiama l'ispirazione rossiniana, più che la tradizione successiva figlia del Risorgimento. In effetti in più momenti, specialmente nel gusto dei concertati, le influenze degli autori precedenti vengono palesate in maniera evidente, ma senza mai perdere lo stile verdiano. Già nella sinfonia la maniera con cui il direttore israeliano affronta le dinamiche è di gusto squisitamente italiano, eseguito con ottima tecnica tedesca. È proprio dialogo fra stile tedesco e italiano la carta vincente di Wellber, che applica all'opera (vincolata dal limite dei numeri chiusi) il Wort-Ton-Drama, donando senso compiuto alla narrazione della linea musicale che, anche nelle migliori interpretazioni, appare, in Nabucco, fin troppo spezzettata.

Assai interessante l'uso dell'agogica e le numerose policromie richieste al coro della Semperoper, a seconda della differenti atmosfere che si susseguono. Fra i momenti che non possiamo esimerci dal citare è la cabaletta “Salgo già del trono aurato”, che viene eseguita con un tempo più accelerato, rispetto al consueto, con un incremento della velocità nell'esecuzione della ripresa. Questa scelta sottolinea l'evoluzione psicologica di Abigaille medesima e rende condivisibile la puntatura acuta al termine, anch'essa attesa quale profezia, grazie alla linea musicale del concertatore, e salutata da una coda orchestrale travolgente e, finalmente, non coperta da un improvvido applauso del pubblico, impedito da questa scelta stilistica, poiché essa si fonde imprescindibilmente con la totalità drammaturgica del momento

Del finale secondo abbiamo già trattato e, non potendo affrontare la concertazione nota per nota come sarebbe d'uopo, passiamo direttamente a “Va pensiero”, durante il quale la profezia perturbante si fa per gli schiavi ebrei canto di speranza, grazie a un uso degli accenti asservito a una linea musicale più uniforme. Per esempio “arpa d'or” viene sovente pronunziato con fin troppa foga, ma non si tratta di un assalto delle camicie rosse di Garibaldi, bensì l'attesa (anch'essa profetica) dell'imminente ritorno di Israele a Israele. Uno dei momenti apicali dell'opera è il successivo arrivo di Zaccaria, che incrementa il suo fascino musicale in questa edizione poiché non ritroviamo un sacerdote isolato e un gruppo di persone che risponde come in un banale canto liturgico, ma la risposta di un popolo che sostituisce il terrore per “l'ira fatale” alla gioia per l'avverarsi della sua speme. Accorciando lievemente le pause, Wellber, dà quasi l'impressione che fra Zaccaria e gli altri ebrei ci sia un dialogo evocativo dell'intero ragionamento poc'anzi espresso; la sola accentazione delle ultime quattro strofe, infatti, con il “sì” ripetuto dal coro con entusismo quasi infantile per la spezzarsi della “indegna catena” del giogo babilonese è un altro emblema della condivisibile originalità lettura che è stata data della partitura, privata dell'abusata marzilità di tradizione.

Nell'analisi dei personaggi, è impossibile prescindere dal più importante, il coro, che, non a caso, intona la sua pagina più celebre a una sola voce, proprio perché questa è una delle caratteristiche della partitura verdiana, il fondersi dei personaggi in un unico grande personaggio, contemplante, secondo l'interpretazione di David Bösch, la profezia continua evocata nel libretto di Solera e nella musica di Giuseppe Verdi. In questo risponde al meglio il coro della Dresdner Semperoper, guidato con precisione da Jörn Hinnerk Anderesen, grazie alla varietà di colori, precisione nella dizione e alla tecnica ottimale di tutti gli elementi.

Abigaille è interessante fin dal suo “Viva Nabucco” d'ingresso, quando (finalmente) viene risolto dal regista il rebus del “mentita veste”. Lei infatti era mescolata al coro degli ebrei, che vestiva in moderni abiti mediorentali, non troppo diversi da quelli delle popolazioni di Bagdad (odierna Babilonia) dove risiedette e prosperò una una nutrita comunità israelitica per 2600 anni, fino al violento Pogrom del 1941 che costrinse l'intera popolazione ebraica sopravvissuta a riparare proprio in Israele (tale evento è citato anche durante “Va pensiero” dal fiorire degli eucalipti che vennero piantati sulle colline attorno a Gerusalemme proprio in quegli anni). Ad Abigaille e agli altri soldati babilonesi basta togliere un turbante o un piccolo drappo che, seppur in scena, li rendeva indistinguibili dal resto dei personaggi presenti.

L'interprete (Saioa Hernández) offre una prova in crescita. Inizialmente l'emissione appare sovente forzata e diffusamente monocromatica con qualche suono non perfettamente centrato nelle salite in acuto. Convince maggiormente già a partire dall'aria “Anch'io dischiuso un giorno”, ben chiusa con la travolgente cabaletta che abbiamo descritto. Decisamente megliore la sua prova dopo l'intervallo grazie a un'emissione più morbida, a tutto vantaggio dell'espressione e della precisione musicale.

Convince anche Ismaele (Massimo Giordano), costantemente malmenato dagli altri ebrei, che gli rinfacciano i numerosi danni che stava provocando con le sue continue, improvvide, iniziative. Nell'aria viene addirittura legato a una sedia (feticcio continuo del trono del folle Nabucco), gli viene strappata la Kippah, quasi ne fosse indegno e sarebbe stato certamente linciato, senza l'intervento di Anna a fermare la furia dei presenti, giustamente adirati. Giordano è bravo a rendere scenicamente il personaggio e a eseguire alcune raffinatezze nel fraseggio che muta dall'isterico al contemplativo, man mano che la profezia prende forma.

Nabucco è stato interpretato nei primi due atti da Plácido Domingo, poi sostituito per indisposizione dal cover Markus Marquardt, a cantare la parte a lato della scena con il leggìo, mentre un attore interpretava l'azione scenica. Nabucco, fin dal suo ingresso in Babilonia, è personaggio folle, agisce sotto le insegne di un bue (simbolico per tutta l'opera dell'idolatria, dell'iconoclastia e del sacrificio) e subito dopo la la cattura degli ebrei palesa il suo disordine mentale, prima col proclamarsi Dio, utilizzando una seggiola di plastica quale trono, poi convincendosi di essere ebreo, a pieno vantaggio della popolazione oppressa. Vocalmente poco si può dire di Domingo che canta per intero i primi due atti con bella intensità di fraseggio, ma incessanti amnesie riguardo il libretto di Solera, mentre si possono solo spendere lodi per Markus Marquardt che, membro dell'ensemble della Dresdner Semperoper, si è ritrovato a cantare, e con pieno merito, uno fra i più importanti personaggi per baritono verdiano.

Fa piacere sottolineare anche l'ottima prova di Vitalij Kowaljow, che, svariati anni fa, ci capitò di ascoltare in uno sfortunato Nabucco al circuito lombardo, durante il quale egli seppe distinguersi, nonostante la mediocrità della produzione. Ora lo ritroviamo nello stesso ruolo, in uno dei massimi teatri del mondo, maturato, con una splendida carriera all'attivo e convincente come lo fu allora.

Completavano il cast la brava Fenena di Christa Mayer, Simeon Esper (Abdallo) e Tahnee Niboro (Anna).

Assistente alla regia era Benjamin David, le scene erano di Patrick Bannwart, i costumi anni '40 di Meentje Nielsen , le splendide luci di Fabio Antoci e la drammaturgia di Kai Weβler.

foto Ludwig Olah