Idomeneo in alto mare

 di Antonino Trotta

Nel nuovo allestimento scaligero dell’Idomeneo di Mozart annoia il disegno disattento di Matthias Hartmann. Decisamente più entusiasmante la concertazione di Diego Fasolis, mentre alti e bassi si avvicendano nel parterre vocale da cui spicca la giunonica Elettra di Federica Lombardi.

Milano, 4 Giugno 2019 – Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, Nettuno in questo caso, la severa divinità che instilla il germe della follia nel sovrano e fomenta il senso di ineluttabile predestinazione che fa dell’Idomeneo un’opera estremamente protoromantica. E qui alla Scala, nel nuovo allestimento del capolavoro mozartiano, il Mediterraneo, motore incombente dell’azione e dell’esistenza, presidia ogni frangente della storia con danzatori argentini, sinuosi e travolgenti come le onde che bagnano le coste di Creta e scrivono il destino di lupi e pecore di mare. Cinto da un monumentale impianto di allusioni e citazioni, il mare s’impone prepotente anche nelle scenografie Volker Hintermeier: c’è il relitto della carena di una nave, una grata consumata dalla salsedine, una buona dose di conchiglie e mitili vari, valorizzati ad arte dalle suggestive luci di Mathias Märker; attrezzeria di lusso, per carità, ma anche addobbi di un acquario dal gusto vagamente texano, con teschi di bufali impalati qui e là di cui si stenta a intuire la ragione, se non fosse per il legame, pretestuoso, con l’enorme testa del Minotauro, icona dell’isola, metafora del sacrificio, che grandeggia e rotea, insieme al resto, su tutta la scena. È vero che Mozart va preso per le corna, ma qui si rischia di esagerare. Perché poi, all’interno della teca di vetro, i cantanti finiscono col fare i pesci lessi: avanti e indietro per il palcoscenico, sempre in proscenio e rivolti al pubblico, persino nei pezzi d’assieme, dove nemmeno si guardano tra loro, a fare sfoggio di colori e movenze più o meno belle, ma assolutamente inutili.

Più che d’inconsistenza o penuria di idee, a essere onesti, la regia di Matthias Hartmann sembra soffrire in sostanza di parzialità. Il regista tedesco, alla seconda presenza scaligera, si preoccupa e occupa infatti solo del protagonista: piace molto la lettura profonda e psicoanalitica del personaggio, dell’uomo di potere logorato dalla smania di potere stessa, che disperatamente cerca di salvare capra e cavolo, culla e trono, senza mai guadagnare una precisa posizione, piuttosto muovendosi sulle piste tracciate dal fato e scegliendo, nel dubbio, di non scegliere. Questo Idomeneo è incapace di scoccare un decisivo fendente appena approdato sull’isola, mentre lo sventurato Idamante gioisce per «Il padre adorato», ma nemmeno sa trovare la forza per rinunciare all’onere e all’onore trono e, dopo la sentenza del cielo, stramazza al suolo nella morsa di angoscia e depressione, salvo poi riprendersi, prima che si chiuda il sipario – conclusosi l’orribile balletto su coreografia di Reginaldo Oliveira –, per abbracciare scanzonato il nuovo sovrano. Un po’ codardo, questo re, a tratti bipolare, tuttavia più umano e ricco di sfumature nell’animo, quindi moderno e interessante, unico punto di pregio in un disegno che quivi esaurisce tutto il contenuto e fa spazio al vuoto più totale, lasciando naufragare il resto dell’opera in alto mare. Addio all’eroismo quasi velleitario di Idamante, alla possanza sentimentale di Ilia, alla sanguigna schizofrenia di Elettra, il carattere più ispido di tutto il primariato; e quando quest’ultima arriva, nel primo atto, per cantare la sua prima aria di furore, dopo almeno un paio di entrate-uscite alla ribalta, ci siamo già annoiati.

Per fortuna il podio è affidato all’analitica bacchetta di Diego Fasolis: concertazione vivida, pochi spigoli – qualche scollamento negli interventi corali s’è sentito – e molte spigolature – nella timbrica dei passaggi “imitativi” della partitura –, ispirata anch’essa a una visione fatalistica della vicenda. Dunque le sonorità asciutte e taglienti, dove si impone l’amalgama bronzea di fiati e ottoni, si innestano in geometrie ritmiche risolute e nevrotiche nelle arie chiuse ma plastiche ed enfatiche durante i recitativi, estremamente curati, entro cui il dramma acquista concreta sostanza. Da perfetto alchimista Fasolis dosa colori e pesi per argomentare un discorso musicale profondamente teatrale che fa da cornice prima e sottotesto poi a ciascun personaggio: c’è il tormento per il voto inumano, la presenza angosciante dello sguardo divino, la poesia della fregola amorosa.

Sul versante canoro risulta vittoriosa Federica Lombardi, Elettra giunonica dallo strumento affilato e dai centri esplosivi che accoppia all’ardimentoso temperamento una musicalità assai pronunciata. Che si tratti delle arie di furore o delle oasi liriche del secondo atto, la voce conserva sempre limpidezza e lucidità, l’involo all’acuto è più sicuro e morbido di quanto constatato in altre occasioni, controllo e pienezza di suono assicurano la statura drammatica della principessa. A lei, meritatamente, sono rivolti gli applausi più calorosi, nonché buona parte dei pochi a scena aperta registrati nel corso serata.

Molto più variegato nei recitativi che nelle arie, Bernard Richter, nel ruolo eponimo, come già anticipato, è l’unico a fare in scena qualcosa che valga la pena di vedere, a eccezione dell’arrampicata sul toro durante la ripresa di «Fuor dal mare» – come se non bastassero le vertigini per la scoscesa scrittura, pur affrontata con qualche discutibile licenza –. Il timbro è alquanto ordinario, l’emissione talvolta compromessa da puntature stentoree, ma nel complesso il tenore veste con onore la camicia di forza che Mozart e Hartmann gli hanno cucito addosso. Virginale e diafana l’Ilia di Julia Kleiter, tutto sommato, al netto di qualche suono fisso o schiacciato, vocalmente corretta e pulita nella delicata linea di canto. Certo non aggiunge al personaggio quella sapidità di cui il condimento registico si è dimostrato avaro, né l’imperfetta dizione corrobora l’incisività del fraseggio, invero ricco di inflessioni dolenti e mesti, ma la pasta vocale è bella e la ricerca di smorzature impreziosisce senza dubbio il risultato. Per Michèle Losier, Idamante, sussistono considerazioni pressoché analoghe. Nobile nell’accento, impulsiva e appassionata, con un materiale mezzosopranile – più tendente al soprano che al contralto – apprezzabile per le bruniture del colore, la Losier affronta il ruolo dell’erede al trono con qualche ruvidezza e fissità di troppo, soprattutto laddove la domanda tecnica si fa più esigente.

Nonostante qualche disomogeneità tra registri, è elegante l’Arbace di Giorgio Misseri, pianamente convincente nella seconda aria, «Se colà ne fati è scritto», ben tornita sul piano dinamico, specialmente nella cadenza. Corretto il resto del cast: Krešimir Špicer (Gran Sacerdote di Nettuno), Emanuele Cordaro (La Voce), Silvia Spruzzola e Olivia Antoshkina (Due Cretesi), Massimiliano Di Fino e Marco Granata (Due Troiani). Maestosa la prova del Coro del Teatro alla Scala istruito dal Maestro Bruno Casoni.

Religioso silenzio durante l’esecuzione, ma applausi convinti, alla fine, per tutti.

foto Brescia Amisano