Stupore, fra pieno e vuoto

 di Sergio Albertini Mancuso

Die Tote Stadt debutta alla Scala e scatena un successo febbrile, che dovrebbe incoraggiare i teatri italiani ad allargare i propri orizzonti di repertorio. La produzione vanta molte frecce al proprio arco, ma lascia anche spazio a qualche riflessione e qualche perplessità.

MILANO, 7 giugno 2019 - Quando la New York City Opera, nel 2001, riprese una produzione di Die Tote Stadt, si scatenò una polemica sul New York Times, molto animata e controversa, tra chi considerava la più celebre tra le opere di Korngold la “trasformazione di una semi dozzina di opere di Richard Strauss in panna montata” e chi ne esaltava i valori musicali. L’opera, oramai, è entrata in repertorio, ma per l’Italia sembra ancora prevalere lo stupore della scoperta (sebbene già nel 2009 il Teatro La Fenice inaugurò la sua stagione con una nuova – e peraltro molto bella – produzione). Stupore, e successo di pubblico, alla Scala: come, in questa stagione, è già accaduto con La straniera di Bellini (Firenze, leggi la recensione), Lo schiavo di Gomes (Cagliari, leggi la recensione), Agnese di Paer (Torino, leggi la recensione). A ben sottolineare come il pubblico, giovane o meno giovane, è ben disposto ad allargare i propri orizzonti sonori oltre i ben amati Verdi e Puccini.

La Scala ha prodotto uno spettacolo sontuoso, a dir poco (pur con alcune perplessità); e il primo elogio va all’orchestra, che affronta un nuovo testo musicale con grande virtuosismo, ben diretto da Alan Gilbert. Il direttore statunitense, classe 1967, nel suo curriculum mescola con un eclettismo tipicamente made in Usa Mahler con la New York Philharmonic e un concerto con Bocelli al Central Park, Brahms e John Adams. Alla Scala, una sfavillante compagine orchestrale è stata condotta dentro un linguaggio armonico che giunge ai limiti del sistema tonale, con sfavillanti ottoni e archi morbidi come seta (l’interludio orchestrale che precede il terzo quadro era da antologia); e ottimo è sempre stato il rapporto tra buca e palcoscenico nonostante la gran massa sonora che richiede Korngold, sempre attento a quell’idea di melodia infinita wagneriana rivista e corretta via Strauss che è filtrata (e qui i detrattori di cui si diceva all’inizio hanno pur una qualche ragione) attraverso una ricca ‘patisserie’ viennese. Il dipanarsi dei Leitmotive, sia pur con l’uso preponderante di quarte e di quinte, è sottolineata da Gilbert con grande sapienza, sicché anche l’orecchio più distratto (ce n’erano, ce n’erano…) riesce a goderne appieno.

Quel che sorprende, è lo stupore: non solo tengo tra le cose più care l’edizione di Bruges la morta di Rodenbach, da cui è tratto il soggetto, nella piccola, economica, grigia edizione Bur, ma anche l’ellepi in cui Beverly Sills affrontava la pagina più celebre dell’opera, "Gluck das mir verliebt". Ecco, voglio dire: in un mondo che oggi offre on line la possibilità di conoscere, se non di sapere, di più, lo stupore non dovrebbe avere più ragion d’essere. Esistono da anni registrazioni integrali dell’opera, ad esempio (e tutte pregevoli), il Concerto per violino di Korngold è da sempre in repertorio. Perdonate la digressione.

Il pretesto drammaturgico del libretto è, invero, fragile, fragile assai, e l’originale di Rodenbach comportava un finale tragico, in sintonia con l’atmosfera deleteria della città: perché è la città, sin dal titolo, la protagonista dell’opera. Questo, forse, il limite di una messa in scena, per il resto interessante assai.

Bruges-la-Morte è un romanzo scritto belga Georges Rodenbach, apparso a puntate su Le Figaro dal 4 al 14 febbraio 1892. 1892: lo stesso anno in cui Maeterlinck scrive per Debussy Pelléas et Mélisande. Siamo in quel mix meraviglioso di simbolismo e decadentismo,che la regia di Graham Vick tuttavia sposta avanti di almeno trent’anni; se nell’allestimento veneziano che vidi la scena era cupa, nera, con quel ristagno d’acqua in cui galleggiavano, alla deriva, le casette di Bruges, nello spettacolo scaligero – altamente tecnologico – l’acqua arriva in una miriade di riflessi dietro le candide, morbide tende, d’un bianco abbagliante, che racchiudono claustrofobicamente Paul, prigioniero della memoria e di un lutto non elaborato.

Grande pregio di Vick è un lavoro di cesello sui cantanti: Paul – in cui si evidenzia l’accenno a una maturità che si farà presto vecchiaia, solitaria vecchiaia – è reso con una nevrosi ai limiti con la bipolarità, altalenando slanci di felicità eccessiva e ripiegamenti inquieti e dolenti. Mariette è (ad alcuni non è piaciuta) semplice fino alla volgarità eccessiva. Ma c’è un momento, in un loro duetto, seduti per terra, spalle a un divanetto semi-Bauhaus, in cui lentamente, molto lentamente, le loro mani si cercano e si trovano. Vivendo per un attimo un abbandono che ha parvenza d’amore (senza esserlo). Una regia micrometrica, minuziosa, precisa. Anche nella baldanza con cui è disegnato Frank, l’amico di Paul.

Vick sceglie la via onirica e fantastica (quelli sono gli anni in cui Richard Strauss lavora a Die Frau ohne Schatten). La più giusta, ma anche la più pericolosa. Se il gioco ricchissimo – con qualche déjà vu – di proiezioni su schermi multipli sparsi a tutta altezza (torna quello stupore di cui si diceva, in altra forma) con simbologie ben note (la fiamma della candela, primissimi piani di occhi che facevano tanto L’age d’or di Bunuel), la ripresa con camera a spalla che proietta su schermo le labbra rosse di Mariette tende a sottolineare simboli e segni, ecco che la volgarità di un teschio gigante (troppo simile al logo dei Guns n’Roses rivisitato da Dolce & Gabbana: come a dire, doppio trash…), le luci sparate a vista (scendono i palchi-luce dall’alto sino ad altezza d’uomo), la presenza di travestiti, nazisti, ebrei (com’è straniante, e non in senso positivo, il Lied di Pierrot intonato da un gerarca…), personaggi nel palco di proscenio rendono lo spettacolo inutilmente sovradimensionato, la passione morbosa si perde, la presenza di Bruges e delle sue acque stagnanti è solo magra evocazione. Il ritratto di Marie non incombe come dovrebbe, ma è delegato ad un dvd proiettato su un grande televisore ultrapiatto (e quell’uso del telecomando è figlio della contemporaneità).

Il finale, con quel progressivo svuotarsi della scena (Les Adieux di Haydn insegna…) sembra a questo punto salvifico anche per lo spettatore. È tutto eccessivo, ingombrante, ridondante, oppressivo. Ritrovare il vuoto sembra l’obbligo finale, ma tardivo.

Il migliore in scena mi è parso Markus Werba. Una presenza naturale, come il suo canto, morbido ed insinuante. E d’altronde, la stessa Luzi Korngold, cinquant’anni dopo la prima dell’opera, ricordava come, alla prima, dopo il Lied di Pierrot, l’esecuzione di Richard Mayr venisse coronata da una tempesta di applausi. L’esecuzione di Werba merita di essere ricordata (nonostante, si diceva, fosse sospeso su un carrello mobile in abiti da nazista): “Mein Sehnen, mein Wähnen” è accattivante, un momento di sospensione drammaturgica, e l’inquetudine, la nostalgia, persino il senso di colpa sono intonati da Werba in una dimensione liederistica che meglio avrebbe reso scenicamente con un canto in maschera. Nel senso di Pierrot. Che ne avrebbe amplificato e moltiplicato il messaggio.

Grandi elogi ci son stati per Asmik Grigorian. Il soprano lituano è stata eletta la 'cantante dell'anno' secondo gli Opera Awards 2019 che solo tre anni fa l'avevano proclamata la miglior emergente. Bella donna (38 anni), disinvolta presenza scenica, eccellente tecnica, ottimo controllo dei fiati. Il colore della voce non è di quelli che si ricordano, tuttavia: rimane come algido attraverso i registri.

Heldentenor lievemente agé, il Paul di Klaus Florian Vogt, costruito da Vick in maniera forse troppo stereotipata, e dal canto spesso fibroso. Chapeau, tuttavia, visto che è sempre in scena per le tre ore di durata dell’opera, con un canto che è spinto sempre nel suo registro più acuto, che nei pianissimi gestisce con un curioso falsettone.

Nei ruoli secondari, una acidula Brigitta (Crisitina Damian) e un imbarazzato Victorin sui tacchi a spillo (Sergei Ababkin, dell’Accademia Teatro alla Scala).

Di scene e costumi si è detto, e son opera di Stuart Nunn; luci (tante!) di Giuseppe Di Iorio, coreografie di Ron Howell.

Del successo di pubblico, pure, si è detto. Adesso bello sarebbe recuperare un Traumgörge di Zemlinsky, che il Teatro Massimo di Palermo produsse per la regia di Guicciardini alcuni anni fa. Al pubblico scaligero, ne son certo, piacerebbe ancor di più.

foto Brescia Amisano