Cavalleria americana

 di Antonino Trotta

Nonostante le molte ombre nel versante vocale, Porgy and Bess chiude positivamente la stagione 2018/2019 del Teatro Regio di Torino: la buona direzione di William Barkhymer e il consolidato allestimento del New York Harlem Theatre assicurano i successo della serata.

Torino, 02 Luglio 2019 – Se Mascagni fosse nato in America, avrebbe mai definito folk la sua Cavalleria? Eppure il folklore, con tutte le sue infinite sfaccettature, ne forgia l’intelaiatura, ne delinea il carattere, ne scandisce colori e atmosfere al punto tale da additarla come manifesto del Verismo musicale italiano ed elevarla a titolo rappresentativo, non solo per il compositore, bensì per un’intera corrente. Certo Gershwin, nell’ambizioso desiderio di voler raccontare l’America con un codice che all’America non apparteneva ancora, sembra adottare quell’accezione più per difendersi nel confronto con i modelli importati dal Vecchio Continente che rispondere alla necessità di una nuova etichetta sotto cui schedare il proprio lavoro. Se infatti si esclude la novità del linguaggio strettamente musicale Porgy and Bess è, nella sua essenza, un’opera decisamente verista e proprio con Cavalleria, che qui al Regio quest’anno l’ha immediatamente preceduta, condivide diversi punti di tangenza: l’utilizzo dello slang per speziare il sapore vernacolare del dramma, l’ingombrante presenza della componente religiosa che non esita a trasformarsi in disarmante superstizione, la forte idea di comunità come depositaria di una cultura arcaica e di una ritualità collettiva. Poi i protagonisti, immobili nella loro caratterizzazione e restii a qualunque evoluzione drammatica, quasi l’intenzione fosse quella di immortalare nel tempo una realtà pressoché immutabile. Insomma, nell’opera di Gershwin, di folk c’è solamente il successo. La scrittura, raffinatissima, rende infatti questo capolavoro fruibile al pubblico più vario e, alla prova dei fatti, praticamente inaffondabile, come Il Barbiere, Traviata o Bohème.

In effetti, sebbene sia stata salutata da un caloroso consenso di pubblico, Porgy and Bess a Torino è cantata maluccio, con mende nel parterre vocale che altrove avrebbero siglato la condanna della serata. Nel partecipare allo spettacolo si coltiva infatti il dubbio che a fraintendere l’aggettivo folk, forse, siano anzitutto gli artisti, decisamente più bravi come interpreti che come cantanti. Morenike Fadoyomi, Bess, è spesso calante e assai laboriosa nelle filature, nonostante in repertorio figurino Tosca e Turandot, ma la tenuta scenica del personaggio è efficace e coinvolgente. Lo stesso dicasi per Alvy Powell, Porgy, interessante per portata dello strumento e espressività nel fraseggio ma talvolta problematico nell’emissione. Sul piano strettamente musicale piace di più Mari-yan Pringle che nella canzone di Serena «My man’s gone now» esibisce una voce timbrata e corposa mentre Meroë Khalia Adeeb, attesa al varco con l’attesissima ninna nanna con cui Clara culla il pargoletto, pur dimentica alcune finezze che la partitura al neon di Gershwin offrirebbe a una vocalista più spigliata. Chauncey Packer vanta invece una buona dose di squillo e un fare molesto e pungente che avvicina Sporting Life al Don Basilio di Le Nozze di Figaro, in netta contrapposizione allo stentoreo e greve Crown di Darren Stokes. Mattatrice della serata è però la Maria di Marjorie Wharton, attrice di gran temperamento che con carisma scenico e irresistibile carica istrionica si guadagna l’entusiasmo della platea alle chiamate finali.

Funzionale il resto del cast: John Fulton (Jake), Errin Brooks (Robbins), Taiwan Norris (Peter), Alteouise De Vaughn (Lily), Bernard Holcomb (L’uomo dei granchi), Derrell Acon (Jim), Patrick Blackwell (L’impresario delle pompe funebri), Louis Davis (Scipio), Richard Cordova (Un detective), Erik Kukla e Patrik Weinrauch (Poliziotti). Buona la prova del Coro del New York Harlem Theatre istruito da Richard Cordova.

Alla guida dell’Orchestra del Teatro – nel loro consueto gran spolvero – William Barkhymer, che non nega qualche spuntatina alla folta partitura, intavola una concertazione rivolta in primis alla ricerca dell’effetto grandioso e plateale, ma comunque rispettosa degli equilibri e dell’adesione tra buca e palcoscenico. Una direzione in definitiva funzionale all’economia dello spettacolo, forte di un allestimento errante che si annuncia con tanto di marchio registrato e che non avrebbe nemmeno bisogno di presentazioni.

Di fatto è la godibile messinscena firmata da Baayork Lee – con l’ausilio di Micheal Scott alle belle scenografie, Christina Giannini ai costumi e Reinhard Traub impegnato nell’ottimo gioco di luci – ad assicurare il successo della produzione. Ciò che si vede è Porgy and Bess esattamente così come se lo immagina, senza colpi di coda e senza nemmeno troppa fantasia; una narrazione che incalza ora pescando nei luoghi comuni più battuti dell’universo afroamericano – la gestualità pronunciata, le mani rivolte al cielo durante gli spirituals –, ora condendo con sottile ironia le dinamiche del microcosmo di Catfish Row, ma lavorando sempre di fino sui singoli personaggi, ben caratterizzati nella loro maschere sociali.

Affluenza da prima e, come anticipato, caloroso successo per tutti.

foto Luciano Romano