L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Luci del varietà

 di Roberta Pedrotti

Accoglienza tiepida, all'inaugurazione del Macerata Opera Festival per una Carmen che suscita qualche perplessità e non si accende nella sua luccicante cornice parigina.

MACERATA, 19 luglio 2019 - Il rosso desiderio del Macerata Opera Festival 2019 si accende lentamente e non si appaga subito. Meglio così, da un lato: la soddisfazione immediata non si gusta quanto quella attesa; tuttavia, non si può negare che questa Carmen inaugurale porti con sé un po' di delusione, come una promessa elusa sul più bello.

Il presupposto da cui parte il regista Jacopo Spirei è, in effetti insidioso, non tanto per la rinuncia al folklore iberico-gitano – cosa che non ci turba, strada già felicemente battuta per un'opera che ha una sostanza ben più forte dell'esotismo di maniera – quanto per la resa frammentaria di una drammaturgia scandita da numeri sul modello della rivista. Insomma, a ventagli e mantillas si sostituiscono i lustrini luccicanti dei locali parigini dove i buoni borghesi vanno a godersi qualche rispettabile intrattenimento erotico. Da questo punto di vista l'idea potrebbe apparire anche foriera di buoni sviluppi: corpi in vendita, moralismo, diversi piani di finzione, eros esibito, negato, liberato, vissuto... Solo che questi sviluppi di vedono poco e prevale un succedersi di immagini che faticano a costruire un dramma, una serie di figurette che faticano a diventare personaggi. Carmen è una diva dei locali notturni, l'Habanera uno dei suoi pezzi forti per un pubblico già scaldato dalla coreografia delle “sigaraie” (ma anche il terzetto delle carte è la prova di un numero per lo spettacolo); Frasquita è una bambolina disponibile, Mercédès un'autoritaria bisessuale; Escamillo è un altro piccolo divo kitsch di questo mondo fasullo, pronto a balzare, però, agli onori del red carpet nel finale; Don José è il solito ragazzotto ingenuo e istintivo; Micaëla una ragazzetta in jeans che ogni tanto spunta non si sa bene perché (e se, falcidiati in buona parte i parlati, diversi tagli sono riaperti, la sua aria comincia invece ex abrupto senza recitativo). Mauro Tinti firma scene e costumi perfettamente in linea con l'ambientazione, Giuseppe Di Iorio si sbizzarrisce con luci arcobaleno, Les jeux du marquis ammicca nel nome a De Sade e rifornisce di conseguenza tutti di opportuni accessori, utilizzati anche nelle coreografie di Johnny Autin. Non temano, però, i benpensanti e i custodi della tradizione: non si va al di là di un po' di biancheria intima e fluidità di genere, immagini tutto sommato patinate per uno show che vorrebbe solleticare, non scandalizzare i borghesi. Il che può andare benissimo, solo che se alla fine, quando la protagonista viene massacrata a colpi di macchina fotografica fra i flash dei paparazzi, fari sparati in faccia al pubblico, non si rimane granché turbati, vuol dire, forse, che questa Carmen non ha centrato l'obbiettivo e, forse, si è un po' persa nel giocare alla sfilata di singoli numeri alla ribalta.

Francesco Lanzillotta, dal canto suo, preferisce giocare di fioretto, come a ribadire che l'ineluttabilità del destino, latente sin dal preludio non abbia bisogno di sfogarsi in esasperazioni drammatiche, ma pure s'infiltri nell'esuberanza vitalistica, che risulta come prosciugata dall'interno. Non per nulla alcuni incisi melodici spesso trascurati (“Elle avait poir amant” di Escamillo nel terzo atto, per esempio) spiccano quasi più di alcune delle pagine più esuberanti e attese. È un peccato che, all'aperto, vento, distanze e umidità possano portarsi via molto della resa dell'orchestra filarmonica marchigiana. Se, però, sia la concertazione sia la regia puntano a spogliare Carmen dell'esotismo di maniera, le vie diverse, quando non opposte che imboccano, lirismo essenziale o luccicante incalzare di esibizioni, non arrivano a far scattare la scintilla alchemica che accenderebbe lo spettacolo. Bisogna dire, peraltro, che nel cast non troviamo personalità tali da innescare la reazione auspicata: Irene Roberts è una brava cantante, una bella donna, si impegna notevolmente sulla scena, danza atletica sul palo e suona – pare – personalmente le nacchere. Nello spazio aperto, però, si sente la mancanza di quella brillantezza sfrontata, di quell'avvolgente e intrigante sensualità nel canto, di quella penetrazione dell'accento che ne farebbero una protagonista di rilievo. Valentina Mastrangelo ci era piaciuta più lo scorso anno come Pamina [leggi la recensione], quando si era distinta proprio per il fraseggio, rispetto a questa Micaëla un po' troppo scolastica e, nel complesso, meno efficace. Matthew Ryan Vickers è un Don José piuttosto convenzionale, voce più grossa che ampia, né lascia il segno l'Escamillo di David Bazic. Francesca Benitez fatica un po' troppo in quegli acuti che dovrebbero rappresentare la ragion d'essere musicale di Frasquita, mentre Adriana Di Paola è una Mercédès che gioca su inflessioni timbriche mascoline. Stefano Marchisio è onorato dall'apertura del taglio del récit di Morales nel primo atto; Gaetano Triscari è Zuniga, Saverio Pugliese il Remendado e Tommaso Barea il Dancaire. Il Coro Lirico Marchigiano è preparato da Martino Faggiani, mentre i Pueri Cantores “D. Zamberletti” da Gian Luca Paolucci.

Al termine, accoglienza tiepida, qualche contestazione per la messa in scena, ma nemmeno da questo punto di vista gli animi sembrano accendersi troppo. Le polveri restano umide, il desiderio ancora non le infiamma. 

 


 

 

 
 
 

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