L’Ape musicale

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Una macchia è qui tuttora

 di Roberta Pedrotti

Emma Dante declina Macbeth nella simbologia femminile mediterranea che caratterizza in maniera ineludibile il suo lavoro teatrale, ma è Saioa Hernandez a imporsi con una Lady che conduce al successo pieno il secondo titolo del cartellone maceratese.

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MACERATA, 20 luglio 2019 - La brama di potere accende il rosso desiderio tema conduttore del Macerata Opera Festival 2019. Come nel 2018, il cartellone si compone di una nuova produzione (Il flauto magico, Carmen), della ripresa di una produzione nata allo Sferisterio (La traviata, Rigoletto) e di una, invece, concepita per uno spazio al chiuso, lo storso anno L'elisir d'amore, oggi Macbeth. Proprio questo spettacolo firmato da Emma Dante per il teatro Massimo di Palermo [leggi la recensione] e già visto anche al Regio di Torino [leggi la recensione], ricompare sullo sterminato palcoscenico marchigiano con tutto il suo sfolgorante repertorio di “emmadantismi”. Una firma d'autore, per gli estimatori della regista siciliana, un forte rischio di manierismo per meno entusiasti. Difficile trovare vie di mezzo fra amore e diffidenza in una cifra stilistica tanto netta, che non può lasciare indifferenti e regala, indubbiamente, composizioni visive di grande impatto, come la teoria di sbarre a ventaglio che ricordano grandi corone, il continuo assemblare e dissolvere troni e scale, movimenti coreografici volutamente sospesi fra il primitivo, il rituale, il grottesco, secondo i registri favoriti da Emma Dante. Il ciclo di potere e fato è declinato, sempre secondo uno stile ben noto, in una femminilità mediterranea atavica. Spesso Macbeth posa il capo in grembo alla Lady, che lo accarezza materna; la sessualità e la maternità sono la chiave fisica del mondo delle streghe, e si esprime attraverso il sangue rievocato di continuo – manti regali purpurei, lenzuola o velari macchiati – a evocare la ciclicità mestruale, la verginità e il parto, emblemi violenti della vita prima ancora che della morte. Non sempre, però, la simbologia si svincola dal catalogo retorico, squadernato tuttavia con abilità, per farsi veramente drammaturgia (la foresta di Birnam composta da fichi d'india sembra più un omaggio all'iconografia emmadantesca di riferimento che non una vera necessità teatrale), talora il gioco surreale e ironico – che per la corte di Duncano o per le apparizioni della stirpe di Banco può funzionare benissimo – eccede la misura scivola, o rischia di scivolare, nell'esercizio di stile un tantino atoreferenziale, se non talora nel ridicolo, come nella danza di lettini insanguinati intorno alla Lady sonnambula. D'altra parte, il teatro di Emma Dante è talmente netto, perfino estremo nella definizione del suo linguaggio peculiare da risultare inevitabilmente borderline, in bilico fra opposti, con un'identità sempre forte, ad ogni costo.

Dal canto suo, gli estremi non spaventano certo Francesco Ivan Ciampa, che punta su una concertazione decisamente pratica, misurata sui grandi spazi aperti e dedita a esprimere la violenza irruente del dramma anche a costo di qualche asprezza timbrica. Non trova così spazio, anche per questioni registiche, il diafano coro di Ondine e Silfidi, né si eseguono i ballabili – dove pure la compagnia di attori-tersicorei di fiducia di Emma Dante avrebbe potuto sbizzarrirsi. Si propone, però, come già a Palermo e Torino, il finale misto fra la versione parigina del 1865, fin qui ascoltata seppur con i tagli menzionati, e quella fiorentina del 1847. Le ultime parole di Macbeth, l'arioso “Mal per me che m'affidai”, sono dunque preposte al glorioso finale corale, con una mescolanza piuttosto faticosa fra il torvo spegnersi dell'azione sul tiranno morente e la solenne celebrazione del ripristinato ciclo del potere: due visioni diverse, fra particolare e universale, che è difficile riunire in un unico flusso. Le giustificherebbe, almeno in parte, un interprete superlativo del ruolo eponimo, ma Roberto Frontali gioca in difesa vocalmente, timbro impoverito e musicalità appannata, e nel fraseggio cerca di far valere l'esperienza calcando però un po' troppo la mano (davvero sopra le righe “sol la bestemmia, ahi lasso”). Il colore tendenzialmente chiaro, però, favorisce l'equilibrio di pesi e timbri con il Banco di Alex Esposito, al debutto in una parte che non si direbbe, di per sé ideale per i suoi mezzi, ma che risolve con una sicurezza tecnica che non teme lo spazio aperto, con un'intelligenza d'artista che fa quadrare ogni conto nella parola scenica.

La trionfatrice è, ad ogni modo, Saioa Hernandez, che debutta allo Sferisterio (doppio battesimo all'aperto per le quest'estate, fra Verona e Macerata) e nei panni della Lady. Al netto di una ben comprensibile prudenza nei trilli del brindisi, l'esito difficilmente potrebbe dirsi più felice. La voce corre e s'impone, l'interprete è grintosa, ma non banale, percorre senza problemi tutta la tessitura, è autoritaria e sottile, fin dalle prime note, senza fatica, lascia presagire una futura frequentazione del titolo nella rosa delle (poche) migliori Lady di oggi, due delle quali rispondono al nome di Anna.

Passato dal Tamino dello scorso anno a un Macduff un po' lamentoso, Giovanni Sala ottiene grandi applausi, ma ci sentiamo di consigliargli di procedere con cautela sulla strada di Verdi. Rodrigo Ortiz mostra qualche insicurezza d'emissione come Malcolm, si destreggiano bene Fiammetta Tofoni, dama della Lady, Giacomo Medici, medico, Cesare Kwon, domestico sicaro e araldo, Bruno Vennazi e Giulia Gabrielli, le apparizioni. Francesco Cusumano e Nunziatina Lo Presti vestono i panni muti di Duncano e Fleanzio. Soprattutto in “Patria oppressa”, con pianissimi ben sostenuti, si fa apprezzare il coro lirico marchigiano “Vincenzo Bellini”, preparato da un'autorità in questo repertorio come Martino Faggiani.

La voluttà del soglio coinvolge questa sera il pubblico maceratese in prolungati applausi.

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foto Tabocchini e Zanconi


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