Manfroce in Valle d’Itria

 di Francesco Lora

Ecuba di Manfroce è lo spettacolo di punta all’ultimo Festival della Valle d’Itria: lusinghiera nelle promesse e formidabile nei risultati è la locandina che annovera Sesto Quatrini, Pier Luigi Pizzi, Lidia Fridman, Carmela Remigio, Roberta Mantegna, Norman Reinhardt e Mert Süngü.

MARTINA FRANCA, 30 luglio e 4 agosto 2019 – Se non fosse morto appena ventiduenne, Nicola Manfroce avrebbe verosimilmente tenuto un ruolo di spicco nell’età di Rossini pigliatutto. Tra le sue composizioni (opere, cantate, musica sacra), Ecuba è l’estremo e massimo capolavoro: ispirato a forme, risorse e scopi della tragédie lyrique francese, e battezzato al Teatro di San Carlo sul finire del 1812, sotto il regno napoleonico di Gioacchino Murat, esso reca la vistosa influenza dello stile di Mayr e, soprattutto, dello specifico dettato della Vestale di Spontini, presentata a Napoli e all’Italia giusto l’anno prima. Si impone tuttora come un esempio superbo della cultura – ancora oggi semiabbandonata al mistero, in musicologia come nei teatri lirici – sviluppatasi nell’intervallo tra l’Illuminismo e la Restaurazione, ovvero tra la scomparsa di Mozart e l’avvento del Pesarese. Non bastasse, da un trentennio a questa parte Ecuba funge anche come uno di quei titoli – arcisnob – che marcano il confine tra il rispettivo bagaglio melomaniaco del neofita e dell’esperto: ancora più spesso, giova a travestire il primo alla foggia del secondo (prendere nota). Va bene così: la socialità intorno al teatro d’opera trae anche da simili ghiribizzi la sua simpatia. E bisogna nel contempo rendere grazie al Festival della Valle d’Itria se, per due recite il 30 luglio e il 4 agosto, nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca, il ricercato titolo ha ritrovato la via del palcoscenico. Una locandina non meno che lussuosa nello snocciolare nomi, pubblico attentissimo e biglietti venduti fino all’esaurito, qualche imprevisto a tenere il fiato in sospeso e qualche opportuna precisazione sul testo eseguito: il tutto comunque mirato alle entusiastiche ovazioni che hanno salutato la seconda recita e insieme siglato il festival stesso.

Regìa, scene e costumi sono di un maestro di bellezza Pier Luigi Pizzi. Anziché inventare una drammaturgia parallela, egli espone con chiarezza ciò che Ecuba letteralmente è: un affresco mitico, un impianto celebrativo, uno studio di affetti. Lo dipinge nei soli colori del nero, del viola e del bianco; lo illumina sotto i lividi fasci curati da Massimo Gasparon; lo apre con una pantomima ove la protagonista, prostrata sul corpo morto del figlio Ettore, parafrasa la Vergine addolorata di mille deposizioni dalla croce; lo chiude con tale asciuttezza da negare, al contrario, l’esibizione della rovina di Troia prescritta nella didascalia e attuata nel turbinoso postludio sinfonico. Il 30 luglio, per lui, piovono dissensi da una fronda della platea: grazie a essi si ravviva l’insegnamento di Ernst Gombrich, quando considera che non vi sono modi sbagliati di godere esteticamente di qualcosa, ma che esistono quelli sbagliati per non goderne. Il 4 agosto, nessuno guasta la festa. Festa che matura via via, ché la “prima” è da ansiolitici: il soprano en titre è indisposto e fa entrare in corsa la cover, il direttore Fabio Luisi rinuncia anch’egli per motivi di salute, Sesto Quatrini ha sette-giorni-sette per studiare da zero l’opera e salvare lo spettacolo di punta del festival. Lo attende un trionfo: per il sangue freddo mostrato in prima istanza, sì, ma anche poiché, al dodicesimo giorno, egli mostra di essersi innamorato di questa partitura e di padroneggiarne ormai con insolenza il lamento e la grandeur. La sua è una direzione svelta e disinibita, incline più alla sfavillante visione d’assieme che alla calligrafica rifinitura di preziosismi: l’azione procede tanto incisiva quanto colorita, proprio là ove il gusto musicale dell’età napoleonica tende trappole di agogica e timbrica, non facili da prevedere né da regolare.

Da lui guidati, l’Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari e il Coro del Teatro Municipale di Piacenza mostrano cavata ampia e poderosa, l’una avvalorata da naturali tinte latine e da mordente pompa di echeggi, l’altro caratterizzato da impostazioni vocali di prestante impatto solistico. Considerato quanto la questione ha tenuto impegnata in dispute la critica durante il soggiorno a Martina Franca, varrà poi la pena di aprire una parentesi chiarificatrice intorno al testo eseguito nelle due recite. A differenza di quanto indicato nella locandina, non è stata adottata una notarile edizione critica di Ecuba, bensì una recente edizione pratica, basata su uno solo degli almeno tre manoscritti integrali tramandati, e tantomeno estesa alle fonti sparse di singoli brani dell’opera. Ciò non costituisce un peccato mortale: fissa anzi un positivo superamento rispetto ai corrotti materiali usati nel 1990 al Teatro Chiabrera di Savona. È mancato però il contesto per un limpido resoconto sullo stato testuale dell’opera. L’ascolto di soltanto un’ora e quarantacinque minuti – a Martina Franca i tre atti sono stati agganciati senza intervalli, imprimendo di fatto il passo inesorabile di un’Elektra straussiana – non implica infatti i tremendi tagli paventati da certuni: fu Manfroce stesso a non porre in musica estese porzioni del libretto (nell’atto II, scene iii, v e vi; e nel III, scena i). Le battute in effetti stralciate al Valle d’Itria ammontano a non più di tre minuti d’ascolto, e il vero motivo di stupore è che tale innocua manciata di note non sia rimasta al suo posto. Altra è l’occasione non còlta al balzo: quella di tentare il ripristino dei due-tre dispersi balli analoghi (balletti, cioè, integrati nell’azione); devoluti forse a un collega ignoto, essi procuravano strategici momenti di distensione lungo una tragedia da bava alla bocca.

La bava alla bocca si addice all’approccio teatrale di Lidia Fridman, soprano ventitreenne sbalzato, il 30 luglio, al ruolo di protagonista. Esile e lunga come una spiga, dà corpo a un’Ecuba di viscerale realismo e insospettato impeto, torva nel porgere e caliginosa di pasta: una Lady Macbeth ante litteram, con retrogusti materni che evocano, a sorpresa, l’affettuoso velluto contraltile di una Sara Mingardo. Alla seconda recita, ecco una Carmela Remigio in straordinario accumulo di forze dopo il rinviato debutto. L’aggiunta della parte di Ecuba al suo repertorio, già sterminato, rivela l’interprete ottima anche per ruoli di scultoreo spessore declamatorio. Entusiasma: non v’è oggi un altro soprano italiano – dunque dall’immacolato idiomatismo stilistico – che meglio di lei coniughi il tesoro vocale (timbro personale, volume importante, estensione completa, modulazione sottile) con la disinvoltura scenica, nonché con uno studio sulla parola degno dell’esempio di Anna Caterina Antonacci. Altrettanto eccellente, oltre che idealmente assortita, è l’interprete di Polissena: con trepida virginalità e tenero accento, Roberta Mantegna trova infatti una parte acconcia al suo calibro di soprano lirico-leggero. Nel tenore Norman Reinhardt, alle prese con la parte di Achille, concepita per il mitico Manuel García, si legge invece il modello di Gregory Kunde, non solo nella gestione tecnica di un luminoso registro acuto unito alla brunitura di quello centrale, ma anche nella peculiare, fragrante, a suo modo sensuale enfasi di fraseggio. Un altro tenore mitico, Andrea Nozzari, sta a monte della parte di Priamo: ma se in Reinhardt e nella Mantegna basta la natura a suggerire i personaggi, l’anziano re di Troia si adatta a forza al raggiante squillo di Mert Süngü, fresco – beato lui – dei suoi trentatré anni.

le foto della prima, protagonista Lidia Fridman - foto Clarissa Lapolla

Carmela Remigio, Ecuba il 4 agosto - foto Clarissa Lapolla