Pizzi, design per Cimarosa

 di Francesco Lora

Il matrimonio segreto è scivolato dal repertorio corrente al museo dei titoli rari; il Festival della Valle d’Itria lo ha affidato al vecchio leone Pier Luigi Pizzi e a sei interpreti tanto giovani quanto artisticamente navigati: il direttore Michele Spotti e i cantanti Marco Filippo Romano, Benedetta Torre, Maria Laura Iacobellis, Ana Victoria Pitts, Vittorio Prato e Alasdair Kent.

MARTINA FRANCA, 31 luglio e 3 agosto 2019 – Al Festival della Valle d’Itria hanno messo a punto un colpaccio anche registico: proprio ora che Pier Luigi Pizzi, alla soglia dei novant’anni, riduce i suoi nuovi allestimenti, a Martina Franca se ne sono aggiudicati addirittura una coppia nell’arco di due settimane. Del secondo spettacolo, Ecuba di Manfroce [leggi la recensione], si è già detto in queste pagine. Ma non si era detto che la cornice scenografica – un parallelepipedo bianco accecante, lungo e lineare, diviso da pilastri in tre ambienti – era in comune con il primo allestimento presentato: Il matrimonio segreto di Cimarosa, un’opera che con le sue quattro recite dal 16 luglio al 3 agosto, nel cortile del Palazzo Ducale, ha ritrovato il palcoscenico dopo essere scivolato dal repertorio corrente al museo dei titoli rari. Nel firmare regìa, scene e costumi per le due opere, Pizzi gioca dunque di ammiccante virtuosismo, e trasforma a recite alterne la casa borghese di Geronimo nel palazzo reale di Troia. È anche vero che proprio con l’impianto scenico del Matrimonio segreto compie un mezzo passo falso. Come Geronimo fa chiaramente comprendere sin dalla sua prima uscita, egli è infatti un recente arricchito, e la sua casa dovrebbe allora essere quella tipicamente kitsch di un parvenu. Si dovrebbe vedere molto oro (oro, oro, oro, oro!), e in generale l’accumulo di tutto l’appariscente che comunichi ai suoi interlocutori, con goffaggine da dilettante, l’avvenuto scatto sociale. Qui si vede invece la dimora di un sottilissimo intenditore di design novecentesco e di arte contemporanea, quale è Pizzi stesso in amabile vena di autoritrarsi: v’è la Sedia Wassily di Marcel Breuer, e v’è una ragionata collezione intorno al Concetto spaziale di Lucio Fontana, dai buchi della Fine di Dio ai tagli di Attesa. Cose – casa – non per un Geronimo qualunque.

Anche i costumi inducono a credere che i personaggi la sappiano lunga in fatto di atelier, più di quanto l’esibizione di Geronimo, la modestia di Carolina, il sussiego di Elisetta, la vedovanza di Fidalma e la servitù di Paolino richiedano: lo smaliziato Conte Robinson, l’unico che conosca davvero il bel mondo alla moda, si confonde così tra gli altri. Fatte le pulci, rimane però, mediante Pizzi, la capacità di trarre le migliori attitudini dagli attori, e di coordinare la naturalezza del loro gioco secondo il galateo della commedia settecentesca: coi tempi che corrono, v’è da farne una scorta. Ciò vale a maggior ragione se si tratta della coesissima squadra schierata a Martina Franca: di questi cantanti non si perde una parola, un gesto, una nota. Marco Filippo Romano, come Geronimo, è l’ultimo arrivato a rinnovare in grande – quando già si disperava – la tradizione dei bassi buffi all’italiana: materiale e tecnica nulla hanno da invidiare al vulcano scenico. Benedetta Torre e Maria Laura Iacobellis, rispettivamente Carolina ed Elisetta, paiono sorelle davvero intercambiabili nella forbitezza dei mezzi, salvo poi differenziarsi l’una dietro la prudenza e l’altra dietro il capriccio. Ana Victoria Pitts, con quel vocione da contralto e quella rigogliosa figura, è la Fidalma la meno caricaturale e la più affabile tra quelle viste e ascoltate da molti anni in qua. La simpatia umana, l’erudizione musicale e l’innato istrionismo di Vittorio Prato passano tutti insieme nel suo smagliante Conte Robinson. A guardare in disparte, contenuto in una sua signorile, timida e personale delicatezza, il Paolino di Alasdair Kent. Puro champagne la direzione furba, vivida, spedita ma rigorosa di Michele Spotti, che invita i cantanti a ornamentare le linee vocali e che cava dall’Orchestra del Petruzzelli nitide sonorità degne di strumenti originali (peccato, però, per i molti tagli avallati).