Tra corpo e voce

 di Francesco Lora

La serata compromessa decolla verso il memorabile, se il lavoro con gli attori dà loro piena padronanza del testo: accade all’ultima recita degli intermezzi napoletani al Festival della Valle d’Itria, con la regìa di Davide Gasparro e il gioco scenico-vocale di Lavinia Bini, Maria Silecchio e Bruno Taddia.

MARTINA FRANCA, 1° agosto 2019 – Manca il lavoro con gli attori: se non subentrassero abitudine e rassegnazione a rendere più clementi occhi, orecchi e penne, nel recensire gli spettacoli operistici lo si dovrebbe ormai ripetere a disco rotto, e a maggior ragione intorno a troppi prodotti del Regietheater, che mettono avanti il loro rivoluzionario Konzept ma non sanno poi realizzarlo in gesto, parola e canto. Se si volesse aiutare tanti registi di oggi, bisognerebbe togliere loro testo e musica, attori e corpi, e lasciarli soli con le idee che, mancando la mediazione della tecnica, vanno dritte a finire in fumo. Esistono le eccezioni, ci mancherebbe altro: ma è illuminante osservare come esse spesso prosperino lontano dalle capitali artistiche fondate su soldi, potere, mercato e immagine. Al Festival della Valle d’Itria già si fanno i miracoli con un budget che altrove basterebbe appena a pagare qualche cachet ai divi in -ez, -ko, -li e -nn; eppure la più istruttiva tra le lezioni di teatro si è annidata, nella conclusa edizione, con appuntito paradosso, proprio nel suo spettacolo più marginale ed economico. Esso era basato su due serie di intermezzi napoletani: i tre tra Erighetta e Don Chilone (ossia L’ammalato immaginario), composti nel 1726 da Leonardo Vinci per la propria Ernelinda, e i due tra Drusilla e Don Strabone (ossia La vedova ingegnosa), composti nel 1735 da Giuseppe Sellitti per un Demofoonte collettivo. Sono non capolavori indiscussi, ma testimoni di stile, genere e costume: in comune v’è il solito tema del matrimonio fra la ragazza scaltra e il ricco babbione, nonché quello, più specifico, dell’ipocondria professata come una moda nel beau monde tra Sei e Settecento; una materia di convenzione, insomma, che non si plasma da sé, ma che prelude o alla serata riempitiva o al lavorare alacremente. Cinque le recite al festival itriano, sparse in altrettante masserie storiche nelle campagne di Crispiano, Mottola, Martina Franca e Ceglie Messapica, tra il 21 luglio e il 1° agosto. Poche ore prima dell’ultima recita, nella masseria San Michele di Martina, ecco l’annuncio che fa passare la voglia: il soprano ha la voce fuori uso; la soluzione, inevitabile, è peggiore del problema: la cantante titolare mimerà in scena, mentre un’allieva dell’accademia le presterà le note dall’orchestra.

Ne viene invece fuori la prova del nove su uno spettacolo dal risultato sbalorditivo, e che nell’emergenza ha più guadagnato pezzi di quanti ne abbia persi per strada. Va presentato qui il suo principale artefice: Davide Gasparro, classe 1990, regista e attore che ha studiato con Luca Ronconi, ha la sua casa al Piccolo Teatro di Milano e vanta autonomia poetica oltre tali referenze. Lo spettacolo del quale firma la regìa ha scene e costumi di Maria Paola Di Francesco e luci di Manuel Frenda: nelle strutture è fatto di niente, onde ridurre al minimo i costi e assecondare il nomadismo da una masseria all’altra, in condizioni via via diverse; nel vivo corpo dei cantanti, non circondato da orpelli, diviene un’enciclopedia di quanta area espressiva si possa spazzare in fatto di parola e spazio: si vede e si ascolta, in parole semplici, molto, molto, molto più di quanto teatralmente appartenga, d’abitudine, al bagaglio scenico di un musicista, ed è in tal modo additata una compiutezza di progetto e discorso rappresentativo cui uno spettacolo operistico, di norma, nemmeno ambisce. Il tutto, attraverso una mai pretestuosa (pre-testuosa) analisi del testo, e mediante un lavoro con gli attori che non ammette aree cieche. Le doti personali del soprano Lavinia Bini e del baritono Bruno Taddia sono note, ma qui – accolte, discusse, aumentate – giganteggiano. In lui non si distingue più la cesura tra le leggi della parola e quelle della musica, unite in un tutt’uno che rimane sempre nel testo pur stressandolo con genio vivace. Ella, cantante abbandonata per una sera dalla voce, non si arrende ma recita come suggerito da Gasparro: dialoga ironicamente nel gesto con Maria Silecchio, che le presta con malizia il canto dall’orchestra, e lancia a pieni giri l’irresistibile gioco metateatrale, con il personaggio diviso nelle parti di corpo e voce. Il gioco divampa quando il Don Chilone e lo Strabone di turno vanno a battibeccare non con la Bini in scena, nervosa di gelosia, bensì con la Silecchio in orchestra: la serata compromessa decolla verso il memorabile. E la diligente direzione di Sabino Manzo, con l’apporto strumentale della Cappella musicale S. Teresa dei Maschi, ne vien fuori quasi amichevolmente intimidita.

foto Clarissa Lapolla