L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Cielo stellato e legge morale

di  Andrea R. G. Pedrotti

La sicurezza di Fabio Sartori, la classe di Simon Keenlyside, il carisma raffinato di René Pape, la qualità dei complessi della Staatsoper sono fra i punti di forza di questo Don Carlo viennese. Dinara Alieva sostituisce l'indisposta Anja Harteros ed Elena Zhidkova è un'Eboli di buon livello, mentre non lasciano il segno la regia di Daniele Abbado e la concertazione di Jonathan Darlington.

VIENNA, 12 settembre 2019 - Una delle più celebri frasi di Kant, “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, può esser punto di partenza per una riflessione attorno al percorso letterario che mutò il vero infante di Spagna nel tormentato protagonista del Don Carlo di Giuseppe Verdi.

Il vero Don Carlos fu un personaggio assai differente rispetto a quello narrato prima da Alfieri, poi da Shiller, modello per l'opera Verdi. Fin dalla prima infanzia palesò una violenza eterodiretta apparentemente priva di motivazione: aggrediva i coetanei, staccava a morsi le teste agli scoiattoli, cercò di uccidere il suo confessore, buttandolo da una finestra, e altre amenità del genere. Don Carlos non mise mai piede in Francia e l'atto di Fontaineblau (non previsto nella versione in quattro atti) non ha senso storico, anche perché in esso si narra di Elisabetta di Valois come promessa sposa di Carlo, ma questo, nella realtà storica, non avvenne mai. Carlos era promesso ad Anna d'Austria, sua cugina di primo grado e nipote carnale del padre, Filippo II, che l'avrebbe, a sua volta, impalmata, dopo la morte del figlio.

È vero che fra Carlo ed Elisabetta si creò un'amicizia, fors'anche dovuta al fatto che i due erano coetanei, ma fra i due non si istaurò mai una relazione di carattere amoroso.

Nelle fonti letterarie successive, invece, la follia di Carlo è giustificata dallo straniamento dovuto allo choc per la perdita della donna amata e all'ossessiva accusa che questo suo sentimento, mai sopito, non fosse altro che un desiderio d'un rapporto edipico. Come abbiamo capito, l'incesto non era un tabù nel '500, ma lo divenne negli anni successivi, ai tempi di Schiller, che, da autore romantico quel era, trasforma totalmente il personaggio storico, ammantando la sua psiche di sentimento e la priva della congenita disordinata follia che fu dell'infante di Spagna.

A Vienna la versione in lingua italiana (a parere personale meno efficace di quella francese originale) ha visto nel ruolo del protagonista un Fabio Sartori che non palesa mai l'esasperato disordine mentale che, talvolta, viene attribuito scenicamente a Don Carlo. Il tenore italiano è più fedele ai dettami di Schiller e manifesta uno straniamento che non inficia nell'interpretazione la contezza della realtà: Elisabetta non è sua madre e l'amore (secondo la morale del romanticismo letterario) è lecito e corrisposto. Vocalmente palesa l'affidabilità a cui ci ha abituato negli ultimi anni: non si trova mai in difficoltà, esibendo un bel fraseggio e squillo apprezzabile, domando la parte con sicurezza.

Accanto a lui Simon Keenlyside (Rodrigo), pur privo dello smalto e della spavalderia d'un tempo, porta a termine la recita con onore. Spesso si trova a dover cercare un suono, che, comunque, riesce sempre a trovare seppur con fatica, forse a discapito della recitazione, assai statica. Il baritono inglese compensa col fraseggio e, al termine, il suo Rodrigo guadagna la piena sufficienza.

Molto bene, come sempre René Pape (Filippo II), regale ed espressivo secondo il suo costume musicale. Ancora una volta il basso di Dresda si dimostra grande artista e interprete raffinato.

Dinara Alieva, giunta in sostituzione dell'indisposta Anja Harteros, suscita le medesime perplessità destate dalla sua Liù nella stessa sala (leggi la recensione). La voce è bella, l'artista è musicale, ma l'emissione non convince, specialmente quando la scrittura verdiana richiede un canto in pianissimo o lunghe tenute di fiato. Se il soprano azero optasse per un'emissione più morbida, sicuramente guadagnarebbe in espressività e proiezione. A questo stato di cose, alcuni dubbi permangono.

Elena Zhidkova (Eboli) interpreta il personaggio più bello e tormentato dell'opera. Una donna simile ad Amneris che, come la principessa egizia, si ritrova a cantare il suo tormento sola in una scena a lei dedicata. Sicuramente l'interprete si fa preferire nel canto drammatico di “O don fatale”, rispetto alla coloratura della canzone del velo, lasciando, nel complesso, soddisfatti per una prestazione sicuramente di buon livello.

Perentorio, tonante ed espressivo l'eccellente Inquisitore di Dmitry Ulyanov.

Completavano il cast Jongmin Park (Un frate/CarloV), Margarita Gritskova (Tebaldo), Elisabeth Pelz (Contessa d'Aremberg), Jinxu Xiahou (Conte di Lerna/Un araldo reale) e Diana Nurmukhametova (Voce dal cielo).

La concertazione di Jonathan Darlington risulta efficace nelle scene d'assieme, specialmente in presenza del coro, ma non accompagna col giusto fraseggio i momenti di maggior intimità. Arie e duetti appaiono sacrificati da una gestione delle dinamiche che, in queste occasioni, non appare ottimale. Nel complesso i tempi sono corretti e l'orchestra, come sempre, non presenta sbavature tecniche. Molto bene il coro diretto da Thomas Lang.

Non particolarmente interessante la regia di Daniele Abbado, simile per molti aspetti ad altri suoi lavori, da Ermione, fino a Macbeth. La recitazione è assai limitata e si affida sostanzialmente alla personalità, fortunatamente notevole nell'occasione, degli interpreti. Poco uniformi nello stile i costumi di Carla Teti, con Filippo II che pare abbigliato da Duca di Wellington, mentre altri personaggi indossano vesti di foggia decisamente più tarda. Essenziali le scene di Angelo Linzalata.

foto © Wiener Staatsoper GmbH / Michael Pöhn


 

 

 
 
 

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