L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ritorni e tradizioni

 di Sergio Albertini

Dopo ben centoquarantatré anni Attila di Verdi torna a Cagliari in una produzione fra luci e ombre. Discontinuo il cast, e se si fa apprezzare la morbida bacchetta di Donato Renzetti, la regia di Enrico Stinchelli suscita più d'una perplessità.

CAGLIARI, 27 settembre 2019 - Centoquarantatré anni sono tanti. Ed Attila, delle opere giovanili di Verdi quella che più ha conquistato il pubblico, quella (forse) oramai tra le più rappresentate, quella che ha al suo attivo alcune esecuzioni discografiche assolute, approda finalmente a Cagliari. Centoquarantatré anni son tanti, anche se, come dalle ricerche effettuate da Pierluigi Corona, dopo gli esordi alla Fenice di Veneziail 17 marzo 1846, l'opera giunse a Cagliari (all'allora Teatro Civico, non più esistente) pressoché subito, nel 1847, per poi essere ripresa nel 1859, 1875, 1876. Poi, il lungo silenzio.

Centoquarantatré anni sono tanti, per un'opera così rutilante, e a mio avviso tra le più belle del periodo verdiano degli 'anni di galera'. E sin dal Preludio s'è capito che Donato Renzetti, sul podio, ha avuto mano felice. Suoni morbidissimi, che esaltano lo slancio melodico, restituito con una malinconia sonora di accattivante bellezza. E per tutta l'opera, Renzetti, con l'Orchestra del Lirico in forma smagliante, ha optato per un Verdi quasi intimo, nonostante la partitura porti spesso verso il clangore e la concitazione. Tempo moderato per la cabaletta del I atto di Foresto, accompagnamento morbido per l'entrata folgorante di Odabella, archi impalpabili nel sogno di Attila. La scelta direttoriale è risultata attenta a sostenere i bisogni e le necessità di un quartetto vocale alquanto discontinuo e, per certi versi, anche deludente. L'Odabella rodata di Susanna Branchini si avvale del timbro sicuramente personale e riconoscibile del soprano; colore caldo, morbido, che in 'Santo di Patria' esordisce con un attacco sicuro, preciso, continuando a sciorinare acuti pieni, rotondi, perfettamente proiettati. Se nel duetto con Foresto emerge qualche debolezza nel registro grave, in 'Oh! Nel fuggente nuvolo' offre una dinamica attenta ai pianissimi della partitura. Ma c'è qualcosa, nell'articolazione del testo, che rimane sempre poco chiara, forse a causa di vocali quasi sempre (troppo?) arrotondate e chiuse (in particolare la 'e') per mantenere un colore lievemente brunito. A discapito della limpidezza.

Il migliore in campo è stato l'Ezio di Giovanni Meoni (il più applaudito nella passerella finale): non solo il baritono, che ha cantato Attila anche a New York per la direzione di Riccardo Muti, ha una ottima presenza scenica, ma il suo canto elegante si inquadra in una dimensione belcantistica di ottima scuola. Una dizione scultorea, netta, attenta al senso di ogni parola, un ottimo legato, per un Ezio che sembra ancora guardare al canto dei primi decenni dell'Ottocento in odor di Bellini e Donizetti. Nella grande aria e cabaletta 'È gittata la mia sorte', scritto o no, bene sarebbe stato poter ascoltare nella chiusa un bell'acuto. E d'altronde, anche la ripresa della cabaletta di Odabella non presentava, ad esempio, alcuna variazione, nessun abbellimento. Ecco, diciamo che, dopo centoquarantatré anni, magari qualche piccolo piacere in questo Attila si poteva anche regalare.

Nel ruolo del titolo, il cui trucco lo rendeva più vicino al Don Quichotte massenettiano che ad Attila, Marco Spotti è apparso più a suo agio nelle pagine in cui la sua voce da basso cantabile poteva espandersi liricamente (la prima parte del 'Sogno' era ottimamente resa a fior di labbra; bravo!) piuttosto che nei momenti (come la cabaletta) in cui l'accento difettava di mordente, di grinta. Mancava, in qualche modo, una parte dell'Attila pensato da Verdi.

Abbiamo trovato inascoltabile, senza se e senza ma, il Foresto di Angelo Fiore. Per quanto giovane, il tenore, nato a Partinico – in provincia di Palermo – ma cresciuto in Toscana, accusa segni preoccupanti di un vibrato, o di un appoggio non saldamente sostenuto, che nell'aria 'Che non avrebbe il misero' tende a scivolare in una intonazione periclitante. Timbro non felicissimo, sembra cantare continuamente sotto forzo. Scenicamente risulta ai limiti del goffo (la mano che si poggia su quella di Odabella a reggere l'elsa della spada, poi lasciata per sistemarsi il mantello, e ritornare sull'elsa...) e in questo assolutamente non sostenuto dal regista, di cui diremo dopo.

Il cast era completato dall'Uldino di Enrico Zara e dal 'Papa' Leone di Luciano Leoni (che nei ringraziamenti finali 'benediceva' il pubblico come in una filodrammatica da dopolavoro ferroviario qualsiasi). Il coro di voci bianche del Conservatorio Palestrina di Cagliari era diretto da Enrico Di Maira; ottima la prova del Coro del Teatro Lirico diretto da Donato Sivo.

Ma centoquarantatré anni dopo, Attila meritava una regia migliore. Inutile, come quasi sempre lo è, provare a leggere le note di regia dei programmi di sala. Al suo quarto Attila (dopo Trieste e Modena), in una coproduzione tra Cagliari ed il Teatro dell'Opera di Stara Zagora (circa 136mila abitanti, sesta città della Bulgaria), Enrico Stinchelli, conduttore radiofonico del programma La Barcaccia, scrive: “per questa nuova produzione, ho pensato innanzitutto, come spesso faccio, di rispettare i luoghi e il contesto storico, per una forma di deferenza innata nei confronti degli autori di musica e libretto ma anche per il pubblico cagliaritano, che per la prima volta assisterà a questa preziosa opera di Verdi”. La tradizione, quindi. Che ha comportato un allestimento a firma di Salvatore Russo: un impianto fisso per tutti e quattro gli atti. Due gradinate laterali che racchiudevano uno spazio interno, caratterizzato di volta in volta da un trono con in alto un teschio di bue in stile Wild Old West; un letto per Odabella con due teste di lupo e una coperta leopardata; un sasso di pietra in polistirolo e gesso; un trono romano su cui scende dall'alto una insegna cartonata con la scritta SPQR. Le due scalinate presentavano su ciascuno dei due lati esterni una ringhiera in stile Ina Casa anni sessanta, mentre in alto un pergolato/colonnato con ringhiera in stile terrazza di Positano. Completavano la scena un paio di torrette in due dimensioni, un paio di pioppi secchi grigi che facevano tanto clima espressionista. Ad animare il tutto, fasci di luce (le luci erano dello stesso Stinchelli) tra il concerto rock e Star Wars, tanto fumo (dell'arrosto è presto detto...), e immagini in movimento del projector designer Sergio Metalli, che riuscivano a dare ai singoli atti le giuste atmosfere, ora con scene di battaglia, ora con la visione dell'antica Roma, ora con cieli infuocati, ora con vetrate di chiesa. Due velari, all'occasione, diventavano schermo per narrare uno stupro di Odabella da parte di Attila, o un primo piano gigante di Leone Magno, con un principio di Parkinson alle mani, che tenta di 'afferrare' Attila. Tradizione. Significa: masse corali perennemente immobili sulle due scalinate (sin dall'inizio, con 'Urli, rapine' si intuisce che il coro se la prenderà comoda in tutt'e quattro gli atti). Significa duetti (in ispecie quello tra Foresto e Odabella) in cui i due, pur parlando tra loro, se ne stanno da una parte e l'altra del proscenio, ben distanti, guardando il pubblico. Tradizione. Quindi tutti i personaggi principali finiscono con lo stare con la spada in mano (anche se non hanno ragione di usarla).

Costumi 'di tradizione'. Vale a dire scudi romani rossi con decori a mano color oro. Cappellacci pelosi per gli Unni. Monaci in sai marroni. Odabella in abito rosso.

Per animare la 'tradizione', un gruppo di sei figuranti, sei ragazze dalle parrucche lunghissime: mentre Odabella canta la sua cavatina, eccole fare Headbanging da metallare, salvo poi porsi dietro di lei e agitare braccia e mani come le Villi abbandonate per amore. Durante la seconda aria di Odabella, alquanto discinte, si rotolano – profane Sante Terese invase dal desiderio – lungo le scale (che finalmente vedono un po' di azione). Riappaiono come nipotine di Marilyn Manson, con movimenti scomposti e sgraziati, che salgono e scendono, inventando quasi una danza – anticipo del grand-opéra? Infine, forse mendicanti cieche, o solo figuranti disperate, invadono la scena senza ragione alcuna. Vale ricordare che nella locandina simili “movimenti coreografici” sono addebitati a Luigia Frattaroli.

Alla fine applausi di cortesia per tutte e tutti, a parte il già citato applauso convinto per Meoni.

 


 

 

 
 
 

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