L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La cetra appesa

di Roberta Pedrotti

Quarto titolo del Festival Verdi 2019, Nabucco fa riflettere nel discusso allestimento di Ricci/Forte, fra concetti condivisibili e realizzazioni interlocutorie. Purtroppo indisposta l'Abigaille di Saioa Hernandez, si distinguono in particolare il protagonista di Amartuvshin Enkhbat e la Fenena di Annalisa Stroppa.

Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

PARMA, 3 ottobre 2019 - I versi di Salvatore Quasimodo si ispirano al Salmo 137, si rifanno direttamente alla tradizione biblica, ma è legittimo chiederci se avrebbero avuto, ancora nel 1944, la medesima forza, se poco più d'un secolo prima Verdi non avesse musicato l'appello degli esuli ebrei "Arpa d'or dei fatidici vati, | perché muta dal salice pendi? | Le memorie nel petto riaccendi, | ci favella del tempo che fu!". E Il canto sospeso di Luigi Nono, con testi tratti dalle lettere dei condannati a morte delle Resistenze europee, non ci fa pensare forse alla stessa immagine? Quella stessa che, ricongiungendo Quasimodo Solera, sceglie Azio Corghi per il suo omaggio ai cinquant'anni dalla Liberazione ispirato a temi verdiani, La cetra appesa (1994).

Nabucco fa parte del nostro DNA, anche se troppo spesso ci scordiamo quei principi di solidarietà, di compassione per chi soffre che Verdi continua a proclamare con forza nel suo teatro: "Per voi si allieti il mondo! Date la libertà!", "E vo gridando: pace! e vo gridando: amor!", "ah! giammai di soffrir vi sia dato | ciò che in oggi n'è dato soffrir!", "No!...No! giusta causa - non è d'Iddio | la terra spargere - di sangue umano". Mentre ancora, idolatrando un tortellino o un crocifisso, c'è chi vede altri uomini come una minaccia e teme come nemici esuli in fuga, Nabucco mantiene la sua forza etica e politica, impellente e ineluttabile come l'attacco degli "Arredi festivi". La storia degli ebrei perseguitati e del re che volle farsi dio non è un kolossal spettacolare, non è solo una metafora risorgimentale. O, meglio, quella che nel 1842 era percepita come metafora dell'attualità, lo è anche oggi, nel mondo di oggi.

Per questo, dove l'allestimento di Ricci/Forte (regia Stefano Ricci, scene Nicolas Bovey, costumi Gianluca Sbicca, luci Alessandro Carletti, coreografie Marta Bevilacqua) per il Festival Verdi 2019 viene più attaccato è proprio dove funziona meglio, dove porta in evidenza con associazioni alla contemporaneità temi cardine della drammaturgia verdiana. Il dolore degli esuli è il dolore dei migranti, il tema del mare, l'angoscia dell'annegamento ricorre intorno a una comunità eterogenea, unita nella precarietà dell'esistenza in balia delle onde e degli arbitrii altrui. La memoria è distrutta dagli uomini senza volto di Nabucco, che lacerano gli stessi libri che scampano ai flutti, mentre opere d'arte sono imballate come merci. Gli oppressori, ipocriti, simulano davanti alle telecamere empatia verso gli oppressi, innalzano alberi di Natale come idolatrie identitarie (le stesse di chi arriva ad accettare, quando non auspicare, la morte in mare di innocenti ma fa del presepe nei luoghi pubblici questione vitale), comunicano ininterrottamente dagli schermi. 

Il principio, dunque, funziona benissimo, un po' meno la realizzazione, che invoca per la sua libertà l'alibi dell'ambientazione in un futuro distopico. Una formula senz'altro di moda (e corroborata da costumi che occhieggiano per le schiave ebree alle ancelle di The Handmaid's Tale), ma superflua, giacché il teatro, in fondo, è sempre l'invenzione di una realtà diversa e Nabucco è già una rielaborazione del racconto biblico. Piuttosto, la giustapposizione fra il libretto di Solera e immagini anche divergenti nel senso letterale potrebbe stimolare interessanti piani di lettura se fosse portato fino in fondo, mentre invece la staticità quasi oratoriale dei solisti in alcune scene rischia di apparire rinuncia (come nell'intervento di Ismaele in favore di Fenena nel finale primo) più che meditata astrazione, soprattutto se in altri momenti si imbastisce, invece, un'azione tradizionale (come nel duetto Nabucco-Abigaille, in cui però il re si trova per troppo in tempo impalato con un pacchetto in mano senza che la cosa si risolva in qualche modo). Ricci/Forte mettono moltissima carne al fuoco sul piano concettuale come sul piano tecnico teatrale, e forse finisce per essere un po' troppo, perché il confine fra dimensione realistica, onirica e simbolica sia gestito a dovere e colpisca nel segno. Alla fine, ed è un vero peccato, molti spunti promettenti finiscono per sgonfiarsi, come l'istante in cui Nabucco intona "Son pur queste mie membra" non svegliandosi da un incubo ma osservando un sacco nero da obitorio, come se la sua conversione nascesse dalla comprensione della fratellanza con i migranti. Anche il rapporto degli oppressori con i media - con lo schermo sospeso sulla scena, le telecamere che talora fanno capolino - avrebbe potuto essere maggiormente sviluppato.

Insomma, mentre si archiviano le polemiche di prammatica su quei principi che meglio interpreterebbero il messaggio verdiano, quel che si può criticare in questo Nabucco è proprio il contrario: non aver osato di più, aver proposto tanti spunti ma averli sviluppati in modo un po' disordinato, come se l'idea già di per sé bastasse.

Sul piano musicale, Francesco Ivan Ciampa, con la Filarmonica Arturo Toscanini e l'Orchestra Giovanile della via Emilia, garantisce una navigazione senza sorprese, nella bonaccia non incontriamo secche o tempeste, ma nemmeno le suggestioni del viaggio. Certo, che Saioa Hernandez, Abigaille, sia indisposta è un vero peccato, perché uno dei soprani più interessanti del panorama attuale si trova a navigare a vista in una delle parti più micidiali dell'intero repertorio: l'ampiezza della voce la aiuta a risolvere la recita, convincendo soprattutto nel suo ultimo arioso.

Saldo come una roccia è, invece Amartuvshin Enkhbat, Nabucco dalla voce splendida, ampia, compatta, emessa con impressionante naturalezza e dizione chiarissima. Ascoltarlo è appagante, un vero piacere che, data la giovane età del baritono mongolo, non potrà che acccrescersi nel tempo con l'approfondimento delle sue qualità d'interprete, l'affinarsi del fraseggio e della recitazione.

Annalisa Stroppa è una Fenena ideale: giusta la misura lirica, giusto il timbro, lo spessore, l'accento, la figura, regala un "Ah dischiuso è il firmamento" ispirato e intimo come dev'essere, calibrando a dovere la salita al La acuto.

Purtroppo, non altrettanto efficace si mostra il suo Ismaele, un Ivan Magrì che tradisce un'emissione più spinta che appoggiata sul fiato. Del tutto inadeguato risulta, poi, lo Zaccaria di Ruben Amoretti: l'essere subentrato (in alternanza con Michele Pertusi) al previsto Pavel Shmulevich è una parziale attenuante, tuttavia la precarietà del suo canto risulta una zavorra non indifferente per la recita.

Efficaci, viceversa, le parti di fianco: Manuel Pierattelli e Romano dal Zovo si fanno apprezzare nei panni di Abdallo e del Sacerdote di Belo; Elisabetta Zizzo scandisce con squillo "Deh fratelli, perdonate! Un'ebrea salvato egli ha!". Il coro del Regio di Parma, preparato da Martino Faggiani, ha Nabucco nel sangue forse più di ogni altra opera e se anche se il bis di "Va' pensiero" non è esattamente una sorpresa, ascoltarli è sempre un piacere e un'emozione.

"Servendo a Jehovah, sarai de' regi il re!" proclama, infine Zaccaria, ma alla gloria ritrovata del tiranno redento risponde un prolungato silenzio in sala. Solo al riaprisi del sipario e al riapparire al proscenio di coro e solisti il pubblico si rianima e applaude gli interpreti. Un esito controverso, ma guai se il teatro, e il festival, vivesse solo di certezze.


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