Al capolinea

 di Giuseppe Guggino

Ripresa autunnale della stagione d’opera all’insegna del grande repertorio al Teatro Massimo con un non indispensabile Barbiere nel quale fa piacere ritrovare la Rosina di Chiara Amarù e il collaudato Don Bartolo di Marco Filippo Romano, guidati in un interessante approccio musicale da Gianluca Capuano. Diverte lo spettacolo perfettibile di Maestrini, tutto incentrato su animazioni proiettate.

Palermo, 16 settembre 2019 - Con la ripresa di settembre si avvia quasi al capolinea anche questa stagione d’opera del Teatro Massimo di Palermo. Tralasciando la quarta Traviata in otto anni, proposta in parallelo nell’allestimento già varato nel 2017, con la nuova commissione a Ludovico Einaudi in scena in questi giorni, di fatto questo Barbiere è l’ultimo titolo propriamente operistico prima del Parsifal che in gennaio inaugurerà la stagione 2020.

Né la direzione artistica pare brillare per fantasia, giacché conferma di non voler andare oltre la trilogia Barbiere-Cenerentola-Italiana nell’indagine non certo poco vario catalogo del Rossini italiano; ma tant’è, e allora val la pena soffermarsi su quel poco di interessante che riserva la serata. A partire da Gianluca Capuano che, pur con i complessi orchestrali di casa avvitati nella routine da minimo sindacale e un Coro che pare salutare svogliatamente l’arrivo della nuova guida in mano a Ciro Visco, cerca di imprimere una narrazione serrata ad un ordito musicale assai trasparente e ben calibrato nelle dinamiche. La Rosina di Chiara Amarù è una piacevole riconferma, sempre ineccepibile nelle colorature staccate, dal pregevolissimo timbro ammaliante, più lunare che viperesco, che si vorrebbe sentire messo alla prova anche nel Rossini semiserio e serio, oltre che nelle cento trappole di già giocate. Parimenti scaltrito è Marco Filippo Romano nel ruolo di Don Bartolo che conosce a menadito, reggendone i sillabati e tutte le difficoltà vocali, con la malizia di saper capitalizzare in scena a suo vantaggio le occasioni teatrali offerte di uno spettacolo un poco troppo caricaturale. Dell’Almaviva di Levy Sekgapane impressiona la facilità in ogni tipo di agilità anche se la proiezione gli difetta e il risultato, in una sala ragguardevole per dimensioni quale quella del Basile, non può che uscirne quantomeno azzoppato. Se a Carlo Lepore, sollecitato nei gravi di Don Basilio, non difetta salvifica la vis comica, altrettanto non può dirsi di Vincenzo Taormina, sempre sopra le righe e costantemente in difficoltà tanto in basso quanto in alto, a rendere questo “barbiere di qualità” troppo insoddisfacente. Stupiscono invece, rispettivamente in positivo e in negativo il Fiorello di Tommaso Badea e la Berta di Piera Bivona.

Lo spettacolo è tutto incardinato sull’intuizione felice, esplicitata sin da una sorta di Carosello sulla sinfonia, di declinare ogni personaggio come diversa incarnazione del cigno pesarese, corredato delle sue rotondità fisiche; il gioco di proiezioni animate create dalla buona matita di Joshua Held, pur con nulla o quasi in scena, riesce garbato e anche tutto sommato ben congeniato per quasi tutto il primo atto. Nel secondo atto cominciano a pesare maggiormente sfasature e difetti di sincronizzazione con le proiezioni e anche la mano registica di Pierfrancesco Maestrini comincia a calcare un poco troppo sulla gag, tramutando il maestro Don Alonso in una caricatura di Pavarotti, trovata che fa respirare fin troppo l’aria stantia e démodé del varietà da Bagaglino. Anche il disegno luci di Bruno Ciulli e i costumi di Luca Dall’Alpi, alquanto problematici nel realizzare plausibilmente formosità boteriane senza scadere nell’effetto Gabibbo, non si segnalano per modernità né brillano per qualche ragione.

Sarà forse un po’ poco per giustificare l’ennesimo Barbiere in cartellone, ma di certo abbastanza per condurre la stagione… al capolinea.

foto Rosellina Garbo