L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

E cadi bene

 di Giuseppe Guggino

Cade piuttosto male la buona intenzione catanese di celebrare il suo Bellini nel 184esimo anniversario della scomparsa. Scivola via in una sala con molti vuoti, infatti, la prima di una nuova produzione del Pirata dal profilo artistico assai scadente, portata in scena da un cast largamente inadeguato.

Catania, 23 settembre 2019 - «E cadi bene», ben lo rammenta ogni Tosca al suo Mario, è la prima regola di quella «scenica scienza» della quale il Pirata varato da un agonizzante Teatro Massimo Bellini di Catania pare essere totalmente dimentico. Si potrà allora sorvolare sulle scene con ben poco di medievale, più che altro frutto di dilettantesco riciclo di pareti trilitiche – verosimilmente avanzo di qualche Norma d’antan – o su costumi dall’orizzonte manifatturiero quanto mai raccogliticcio (pelli e pellicce, scapolari, cocolle da monaca e quanto più d’eterogeneo possa immaginarsi), stante la nota e cronica criticità finanziaria dell’Ente regionale catanese. Ma sul modo di buttarsi a terra non c’è dissesto economico che possa rabbonir il giudizio; e se Giovanni Anfuso, coadiuvato nella regia persino da un assistente, non riesce ad evitare il comico involontario a tutte le implorazioni al suolo di Imogene né provvede a cassare le luci psichedeliche nell’uragano d’apertura, allora viene meno l’essenza stessa del teatro e qualsiasi tentativo d’excusatio tramutasi d’ufficio in accusatio. Anche chiudendo gli occhi, però, le cose non migliorano, giacché nessun senso ha rispolverare un capolavoro del belcanto in assenza di vocalità in grado di farsene carico. Non ci si dilungherà quindi sull’indisponibilità ancora di un’edizione critica capace di ripristinare le tonalità originarie pensate per Rubini, né sul mancato ripristino dell’introduzione con clarinetto nella sua aria nel secondo atto, stante che già con gli accomodi di tradizione e numerosi sconti Filippo Adami riesce a misurarsi col ruolo eponimo con buone intenzioni e poco più. Anche all’Imogene di Francesca Tribuzi non mancano le buone intenzioni, quasi sempre naufragate su di un assetto tecnico deficitario che l’induce in quartine ritmicamente assai ineguali e in un’intonazione sovente quanto mai fallace. La correttezza di Francesco Verna alle prese con Ernesto assurge quindi a balsamo di una serata poco fortunata, nella quale non la scampano neanche i comprimari; se l’autorevolezza del Solitario di Sinan Yan è pressoché nulla, appare un arcano la musicalità di Riccardo Palazzo alle prese con Itulbo né Alexandra Oikonomou quale Adele si imprime alla memoria per qualche flebile ragione.

Non si potrà rimproverare quindi a Miquel Ortega di tirar via alla svelta la serata dal podio, con qualche scorciatura e senza troppo indugiare in finezze dinamiche; gli basta una buona conoscenza della partitura per riprendere con sicuro mestiere qualche incipiente scollatura, e già questo pare degno d’encomio. L’orchestra e il Coro, istruito da Luigi Petrozziello, fanno valere le loro prerogative in questo repertorio, le prime parti non mancano nei loro momenti topici (una menzione quantomeno per il corno inglese nella scena finale della pazzia) ma non basta per evitare allo spettacolo una caduta, senza la «scenica scienza» di cui sopra. Applausi frettolosi e (troppo) timidi dissensi per la parte visiva.


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