Non è sì vago e bello

di Francesco Lora

Händel e Giulio Cesare in Egitto sono i bentornati al Teatro alla Scala. Lo spettacolo si lascia però inquadrare anche come problema dell’interprete col, di e nel testo: dirimente ma non dominante è il buon esempio degli italiani in locandina.

MILANO, 25 ottobre 2019 – Se chi scrive è un filologo di professione, le sette recite di Giulio Cesare in Egitto al Teatro alla Scala (18 ottobre - 2 novembre) sono soprattutto un problema dell’interprete col, di e nel testo. Händel concepì questa partitura onde farne con evidenza l’opus maximum: quasi cinquanta pezzi chiusi per circa quattro ore di musica, organico strumentale con gli echeggi di quattro corni e la ricercatezza di viola da gamba e arpa, parti vocali destinate a virtuosi del canto tra i più illustri. Portare in scena Giulio Cesare significa dunque assumersi, anche, anzi soprattutto, responsabilità fuori dal consueto. Ma alla Scala un buon quarto dell’opera risulta falciato via, con tagli di natura impensabile per l’autore e la sua epoca: recitativi sforbiciati a casaccio in barba a rime, metri e logica del dramma (e dire che sarebbero già accuratamente brevi di loro, destinati com’erano a un pubblico non italofono); accompagnati che non portano più verso alcuna aria e personaggi che lasciano la scena dimenticando l’obbligo di un assolo (le due cose avvengono insieme con «Alma del gran Pompeo» e «Non è sì vago e bello»); brani col da capo limitati alla sola prima sezione, anche quando si tratti di arie di primissimo rango (come si fa a mutilare «Se in fiorito ameno prato», il capolavoro che risponde alla seduzione di Cleopatra?). Non bastasse, ci sono poi le libere interpolazioni di interludi strumentali (anch’esse snoccolati in tristi mozziconi, come quello della Marche alternativa a una Sinfonia nell’atto III, privata di battute e tromba) e ci sono le libere dislocazioni di passi che hanno altrove il loro posto (l’ultima aria di Achilla passa dall’atto III al II, dopo avergli tolto entrambe le precedenti). Ci sono infine gli oggettivi fraintendimenti – il discorso si fa più sottile – delle non casuali prescrizioni d’autore; per esempio quando Händel ricorre da maestro all’antifrasi: fa cioè piangere Cornelia su una straniata aria danzante in 3/8 («Priva son d’ogni conforto») e scrive ‘Largo’ a mo’ di litote, per non far correre troppo l’orchestra; succede invece che il brano, alla Scala, sragioni nel divisore dell’indicazione di tempo: non l’effetto moderato di un 3/4 o quello claudicante di un 3/2, ma direttamente quello di un immobile 3/1; l’evocata farfalla con le ali offese diviene un elefante accasciato al suolo.

È un’iniziativa ottima che la Scala abbia sensibilizzato una parte della propria orchestra al suono, alla tecnica e al fraseggio del repertorio pre-classico: in un teatro con maestranze stabili, essa è una condizione oggi da conseguire, favorita dalla versatilità delle giovani leve. Se si esclude l’apporto degli specialisti venuti a dare manforte (i professori del basso continuo e quelli che imbracciano i corni naturali), gli esiti sono però ancora timidi, incerti, esitanti: il dichiarato uso di strumenti storici non suona ancora come tale all’orecchio disinibito. Li aggrava la concomitanza di un pasticciaccio: i brani a quattro parti vocali sono qui intonati non dall’insieme dei cantanti, come dev’essere, ma dal coro scaligero, costretto a tessiture innaturali e all’inammissibile stilistico (per dirne una: la sezione dei tenori si trova al cospetto di La4 scritti sì nella sua chiave, ma in verità destinati ai contralti impegnati come Tolomeo e Nireno). Chissà cosa ne pensa il concertatore designato, Giovanni Antonini: un tempo il suo Giardino armonico era il più sferzante complesso di musica barocca italiano, mentre oggi, alla Scala, le di lui idee paiono avvilite da ostacoli sorti su più di un fronte.

Quelli più temibili consistono nel nuovo allestimento con regìa di Robert Carsen, scene e costumi di Gideon Dawey, luci di Carsen stesso e Peter van Praet, coreografia di Rebecca Howell e video di Will Duke. Fatto sorprendente, ecco servito il più scialbo tra gli spettacoli carseniani dei quali resti memoria, con la sua scabra monotonia d’immagini percorsa da ironia debole e fuori luogo, con l’abbandono degli attori alle sole e non esaurienti capacità pregresse, con la pretesa di una drammaturgia nuova ma sfuggente alla resa dei conti, con il pigro riciclo di soluzioni già battute un ventennio fa da Luca Ronconi. La compagnia di canto ha perso la propria gemma con il clamoroso forfait di Cecilia Bartoli: il rimasto evidenzia la mancanza non solo della diva, ma anche del suo alto linguaggio. Ben quattro sono i controtenori. Bejun Mehta, nella parte eponima, e Christophe Dumaux, come Tolomeo, sgranano quartine di semicrome con buon volume, ma a prezzo – causa il cercare risonanza nelle cavità nasali – di timbri aciduli e vetrosi. Dopo le prime recite, Händel affidò sempre la parte di Sesto non a un mezzosoprano, ma a tre tra i massimi tenori dell’epoca: Borosini, Fabri e Pinacci; sarebbe bene ricordarsene, di quando in quando, tanto più che Philippe Jaroussky, con le sue vocali strette strette e un certo disagio estensivo, vi mostra una precoce e spiacevole stanchezza. Luigi Schifano, nel ruolo comprimario di Nireno, ha mezzi ordinari ma dà ai predetti una lezione di prosodia italiana, ove la parola risulti vivida e naturale senza sovraccaricarsi di vezzi sterili. Subentrata alla Bartoli come Cleopatra e dotata sia di smalto vocale sia di avvenenza, Danielle de Niese appartiene però alla categoria delle soubrettes ammiccanti, non a quella delle sfavillanti primedonne che ammaliano con la linea di canto, né a quella delle virtuose con pronto il salvagente a una perigliosa aria di tempesta. Di gran lunga i migliori, tanto per cambiare, risultano così gli italiani per anagrafe o adozione: Christian Senn come incisivo Achilla e Renato Dolcini come accurato Curio. Per non parlare di Sara Mingardo come Cornelia: il passare dei lustri pesa sulla macchina canora, inutile negarlo; eppure è sempre il suo porgere franco e trepidante, con quel timbro d’ambra, ad additare spietato dove gli altri tentino e sbaglino.

foto Brescia Amisano