La meglio gioventù

 di Mario Tedeschi Turco

Mentre per le vie di Verona impazza il chiasso del carnevale, due giovanissimi solisti si fanno valere al Teatro Filarmonico: Roman Lopatynsky al pianoforte e il violoncellista Edgar Moreau in concerto con l'orchestra areniana diretta da Francesco Ommassini.

VERONA, 1° marzo 2019 - È una bella sensazione quella che si prova alla fine di un concerto, durante il quale hai appena sentito un paio di ragazzi di 26 e 25 anni nemmeno compiuti padroneggiare due classici della letteratura pianistica e violoncellistica con la tecnica, il vigore e la passione di artisti consumati. La serata al Filarmonico mentre fuori impazzava il chiasso del carnevale è andata così, con la migliore gioventù europea che faceva rivivere Beethoven ed Elgar, nell’Imperatore e nel Concerto per violoncello e orchestra, mostrando in modo diverso le qualità di un approccio interpretativo di grande rilievo.

Roman Lopatynsky, classe 1993, ha collezionato già diversi riconoscimenti in festival internazionali, tra i quali un terzo premio al Busoni nel 2015. Artista di estrema concentrazione, attacca il Quinto concerto beethoveniano con forza priva di irruenza, perfetto senso del respiro melodico e ritmico, varietà dinamica. Dopo il passaggio tematico espositivo orchestrale, il racconto del pianoforte prosegue con la medesima qualità appena annunciata dall’esordio: le ottave in successione, lo sbalzo scultoreo del ritmo, l’adattarsi della dinamica dallo sforzato iniziale al progressivo smorzarsi (secondo la geniale scrittura di Beethoven, di pura epica classica), tutto è reso da Lopatynsky senza sforzo apparente, con naturalezza, con una propensione al canto sorgivo e un timing perfetto con l’orchestra, ben diretta da Francesco Ommassini nel risaltare dei dettagli di legni e corni, come nello slancio senza retorica degli archi. Il secondo movimento è stato staccato forse con eccessiva lentezza, la qual cosa tendeva a slabbrare il mélos che par giungere dagli spazi siderali inventato dal compositore: il solista, dunque, pur mantenendo la precisione di cui si è detto, ha forse fatto intravvedere un carattere del suo pianismo che è passibile di miglioramento. Molto interessante però la transizione tra secondo e terzo movimento, che con la sua estenuata agogica trattenutissima ha aperto a un Rondò finale di effetto drammatico/contrastivo elettrizzante, nel quale Lopatynsky ha dato il meglio nello stagliare il progressivo moto ascensionale sulle sincopi dell’orchestra. Un’ottima riuscita, insomma, cui hanno dato il loro contributo non solo il tocco cristallino e la musicalità nettamente individuata del solista, ma anche l’analitica direzione di Ommassini, così che l’intenzionalità sonora di Beethoven è stata ottenuta in modo pienamente soddisfacente.

Prima del Concerto per violoncello di Elgar, l’orchestra areniana ha proposto l’Overture del Freischütz di Weber, in cui un buon gesto narrativo complessivo (ottimi gli interventi dei corni) è stato purtroppo compromesso dai tromboni costantemente fuori dinamica, per di più con timbrica ch’era tutto fuorché chiara e squillante, e invece pericolosamente simile al growl, gutturale e disomogenea. E questo è stato altresì l’unico difetto, globalmente, dell’esecuzione conclusiva elgariana, solista Edgar Moreau, che è parso un miracolo di intonazione e di tornitura sonora. Sin dal motto d’esordio, il violoncello di Moreau evoca il crepuscolo di un mondo, un’elegia mossa dall’interno con la sapienza della variazione dinamica grazie soprattutto a un uso del vibrato sempre diverso, cangiante, totalmente immerso nella eterogeneità delle indicazioni espressive di Elgar, dei ritorni tematici, delle variazioni formali, dei micromotivi che si espandono e si riuniscono poi nel grande canto talora assorto, talora acceso di entusiasmo, sempre ricco di un lirismo che la tecnica trascendentale plasma in forza del suo stesso virtuosismo. Il peso sonoro di Moreau non è forse ottimale per tener testa al magma orchestrale, così che in taluni momenti dello Scherzo in Sol maggiore l’equilibrio fonico è risultato appena compromesso, ciò che non ha comunque impedito la piena realizzazione, ad esempio, di quello straordinario passaggio tematico del Rondò in 2/4, con gli accenti e gli abbellimenti a disegnare una sorta di danza astratta, prima dello spegnersi progressivo verso il Lento, e con la successiva ripresa del motto iniziale e il finale di riesposizione del motivo di base. Non ha (ancora) l’indole furiosa della Dupré, il giovane Edgar Moreau, né l’eroica profondità di Rostropovič o lo splendore timbrico di Sol Gabetta: a 24 anni sarebbe anche eccessivo pretenderli. Ma sul suo futuro possiamo scommettere, mentre ci godiamo un suo comunque gran bel presente.

foto Ennevi