L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'Incompiuta di Mozart

 di Alberto Ponti

La Grande Messa in do minore è proposta nella recente versione completa di Robert Levin

La prima impressione destinata a rinnovarsi ad ogni ascolto della Grande Messain do minore K 427 (1782-83) è quella che un genio come Wolfgang Amadeus Mozart (1756-91) fosse non solo un formidabile creatore ma anche un geniale ascoltatore e assimilatore di musiche altrui. Echi di Bach, degli oratori di Händel, della grande polifonia italiana si fondono, sotto l'ala di un'ispirazione vertiginosa, in un colossale torso che condivide, al pari dell'altro capolavoro sacro del Requiem, la sorte dell'incompiutezza. Se la composizione del secondo fu interrotta dalla morte dell'autore, non si conoscono con esattezza i motivi per cui la precedente opera non fu condotta a termine: il venir meno della possibilità di un'esecuzione definitiva dopo l'anteprima frammentaria di Vienna del 1783, l'interesse verso nuove forme (dopo questa Messa, Mozart non affronto più il genere), la paventata limitazione, anche nella capitale, dell'uso di cori e musica strumentale in ambito ecclesiastico sulla scorta di quanto già avvenuto a Salisburgo per iniziativa dell'arcivescovo Colloredo. Molte ipotesi sono state formulate ma probabilmente nessuna di esse, considerata da sola, penetra fino in fondo nei motivi della scelta.

Omer Meir Wellber, ospite sul podio dell'Orchestra Sinfonica Nazionale giovedì 28 e venerdì 29 marzo insieme al coro Maghini di Torino, si avvale per la prima volta in Italia dell'edizione critica curata da Robert Levin nel 2005, basata per il completamento delle parti mancanti (seconda metà del Credoe quasi totalità dell'Agnus Dei) soprattutto sulla cantata Davidde penitente (K 469), in cui il compositore riprese ed elaborò parte del materiale tematico della Messa. La direzione del maestro israeliano appare riflessiva, impregnata di profonda emozione, attenta al controllo delle dinamiche tra i quattro solisti, la massa corale e l'orchestra, comprendente, rispetto al normale organico settecentesco, trombe, tromboni (collocati per l'occasione, col loro timbro di pungente trascendenza, proprio al centro del coro), timpani e organo.

La consistenza vellutata del soprano canadese Emily Dorn si manifesta fin dal Kyrie, oasi di speranza e abbandono al divino in un movimento aperto e chiuso dall'implacabile e cupo moto di quartine di crome e semicrome, con splendida alternanza tra staccati e legati, scolpita con amorevole cura dalla bacchetta di Wellber. Cuore dell'opera è il vasto e articolato Gloria, che vede, accanto ai multiformi accenti del coro, gli interventi anche del mezzosoprano Katija Dragojevic, convincente in particolare nel drammatico Domine Deus, e del tenore Patrick Grahl, di casa in questo repertorio, dall'intonazione limpida e ordinata. Nel Credo, dopo le altezze metafisiche dello straordinario Et incarnatus est, che chiama a un ruolo di assoluta preminenza il soprano, prende avvio la diligente e apprezzabile, per quanto inevitabilmente arbitraria, ricostruzione di Levin. Lo studioso statunitense appronta un testo musicale rigoroso, senza cesure di stile, gettando un ponte, nell'incredibile viaggio tra epoche e stili che è la Grande Messa, verso i successivi Sanctuse Benedictus, ancora di mano mozartiana, sebbene ricostruiti già nell'Ottocento sulla base di alcune singole parti manoscritte sopravvissute alla prima esecuzione. Il denso Benedictus, che contempla l'entrata in scena a fianco degli altri soli del basso ungherese István Kovács, è un vertice della presente interpretazione, col suo complesso intreccio vocale dipanato dal podio con sincera commozione lontana da sentimentalismi, in un crescendo di pura beatitudine. Emerge, nell'Agnus Dei terminale, dove il compito di Levin è stato più intenso e arduo, il preciso rifacimento a stilemi del salisburghese, trasportati di peso nel contesto. E se nel Gloria era stato Mozart stesso a far risuonare echi del celebre Hallelujah del Messiah händeliano, gli ultimi accordi del lavoro richiamano, in questa versione, la chiusa della sinfonia Jupiter.

L'entusiasmo del pubblico è rivolto a tutti i protagonisti, con lunghe acclamazioni per la prova superlativa del Coro Maghini istruito da Claudio Chiavazza.


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