Eclettismo e libertà

 di Mario Tedeschi Turco

Un programma composito affrontato senza troppi scrupoli filologici permette, comunque, di apprezzare il valore di Beatrice Rana interprete di Bach, così come le caratteristiche dell'Amsterdam Sinfonietta, ben in evidenza soprattutto in Bartók.

VERONA, 3 aprile 2019

AMSTERDAM SINFONIETTA

CANDIDA THOMPSON primo violino e direttore

BEATRICE RANA pianoforte

W. A. Mozart Eine Kleine Nachtmusik

J. S. Bach Concerto in re min. per pianoforte e orchestra BWV 1052

H. I. von Biber Battalia à 10

B. Bartók Divertimento per orchestra d’archi Sz113

J.S. Bach Concerto in fa min. per pianoforte e orchestra BWV 1056

Avevamo forti perplessità, prima di questo concerto della stagione del Teatro Ristori, guardando un programma tanto composito, di quelli che a tutta prima sembrano messi insieme per una prova muscolare, di virtuosismo esecutivo tout court. Dopo l’ascolto, l’impressione complessiva è che questi archi da camera olandesi siano bravi, bravissimi, bravi da far invidia; ma permane tuttavia anche l’idea che un concerto avrebbe da seguire un filo logico, un progetto culturale, una linea estetica che non sia solo quella appunto dell’orgoglio della propria eccellenza nello spaziare dal ‘600 al ‘900 con pari brillantezza: dal concerto all’happening il passo è breve e, riflettendo sul concetto di una serata in cui si cerchi conoscenza, oltre che emozione, avremmo preferito un approfondimento magari ridotto a due o tre nomi, ovvero a una sola epoca, ma più circostanziato da un punto di vista storico.

Del resto, la Storia non pare la prima preoccupazione dell’Amsterdam Sinfonietta: gli strumenti sono moderni, la prassi esecutiva non segue i principi storicamente informati, così che i BWV 1052 e 1056 con formazione 5-5-4-3-1 più pianoforte giungono, dopo mezzo secolo buono di ascolti basati su più rigorose ricostruzioni d’epoca, come un qualcosa di altamente spiazzante. Sia chiaro: l’orchestra e Beatrice Rana hanno evitato ogni turgore romantico, ogni eccesso di vibrato, cercando di restituire il nitore delle linee di contrappunto, senza udire le quali i pezzi bachiani non hanno alcun senso. E l’operazione è riuscita, nonostante legati incongrui nei movimenti lenti (uditi del resto anche nella Battalia di Biber): il pianismo della Rana è quello ormai ben conosciuto, felicissimo quando si tratta di costruire le architetture, di rilevare i segmenti motivici e il loro sovrapporsi, sia sullo strumento, che in relazione all’orchestra. Non c’è stato un solo attimo in cui il peso fonico della solista andasse a sovrapporsi a quello dell’ensemble, e l’equilibrio complessivo raggiunto ha sfiorato la perfezione, se si eccettuano poche battute all’inizio dell’Allegro del Concerto in re minore. Nel terzo movimento dello stesso Concerto, i fugati di rielaborazione motivica sono stati stagliati con rilievo scultoreo e leggero al tempo stesso, mentre nel BWV 1056, al movimento finale, la Rana ha esercitato un controllo antiretorico perfetto nei suoi brevi interventi solistici, lasciando all’impeto di danza del Presto scandito dall’orchestra il ruolo preminente, come giustamente deve essere. Due esecuzioni tecnicamente superbe, insomma, sempre che si riesca a prescindere dall’intenzionalità sonora originaria, da ricostruirsi su rigorosa base testuale arricchita dalla trattatistica esecutiva d’epoca, la quale ci assicura d’un suono notevolmente diverso nelle intenzioni dell’autore come nell’orizzonte d’attesa degli ascoltatori: non solo quelli settecenteschi ma, come sopra accennato, anche contemporanei.

L’ensemble si esibisce in formazione 6-6-5-4-2 nel resto del programma. Detto di un hors-d’oeuvre mozartiano cesellato ma un po’ freddino, la Battalia a 10 è stata resa con eccessivo riverbero ma con bell’impatto teatrale: oltre agli effetti speciali col legno uniti ai colpi di tacco ritmati, al momento della Marcia (dove il violino e il violoncello imitano rispettivamente il piffero e il tamburo), i due esecutori sono effettivamente scesi in platea, compiendo un marziale giro per mezza sala, per poi tornare sul palco. Spettacolare anche l’esecuzione del Quodlibet famosissimo, l’iper-barocco sovrapporsi scomposto e dissonante di otto melodie diverse, a imitare i suoni confusi dei soldati che si riposano cantando nel campo: il gruppo olandese l’ha eseguito con un piglio analitico tale da far udire i vari lacerti melodici con sbalorditiva precisione di dettaglio, pur nel deliberato “caos organizzato” d’impianto.

Pezzo forte della serata è stato però il Divertimento di Bartók, scritto dal sommo ungherese nel 1939. In questa ineffabile odissea sonora, in cui gli impulsi sussultori di un ritmo mesmerico si strutturano in forma organica con i timbri diversi dei quattro tipi di archi, andando a formare un discorso a volte colmo d’angoscia, altre di vitalistica intensità, la Amsterdam Sinfonietta ha colto il suo indiscutibile alloro, con le prime parti (in primis il violoncello) prese in un’energia cinetica incessante, in cui il pathos non è mai stato disgiunto da una cronometrica intesa tra le sezioni. Ma di più, ci è parso di udire nell’esecuzione di questo brano la dimensione più autentica dell’ensemble: nei ritmi franti, nella stima dei loro microintervalli, nelle linee espressionisticamente tracciate, nella tavolozza di colori eternamente cangianti di Bartók, l’orchestra guidata da Candida Thompson ha fatto udire un’urgenza, diresti una necessità poetica ben più attuale e idiomatica di quanto non abbia ottenuto con i classici del passato, pur così brillantemente – ma un po’ arbitrariamente – eseguiti.