L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Per Aspera ad Astra

di Luigi Raso

Non brilla in Schubert e Beethoven, ma trova il suo terreno d'elezione nel conterraneo Bartók, il quartetto Kelemen, al debutto a Napoli, al Teatro Sannazaro, nella stagione dell'Associazione Scarlatti.

NAPOLI, 24 ottobre 2019 - Dal corpus delle composizioni “incompiute” di Franz Schubert il breve Quartettsatz in do minore D. 703 di Franz Schubert emerge per la indiscutibile fattura, per inventiva melodica e per quella contrapposizione di luci ed ombre introdotta dal celebre tremolo iniziale che apre il primo movimento di quello che sarebbe dovuto diventare il dodicesimo quartetto per archi del musicista viennese, composizione iniziata nel dicembre del 1820 e lasciata, appunto, “incompiuta”.

Al suo debutto napoletano il Quartetto Kelemen, - dal nome del primo violino, Barnabas Kelemen, che imbraccia un Guarneri di proprietà dello stato ungherese - sceglie questo brano la cui complessità e bellezza è inversamente proporzionale alla sua durata: in circa dieci minuti di musica, infatti, Schubert condensa un mondo musicale, vagando tra atmosfere corrusche e melodie dalla lirica cantabilità.

L’interpretazione che ne dà il Quartetto Kelemen, però, non sembra solo sfiorare lo spirito profondo della composizione, limitandosi a una lettura tendenzialmente corretta - benché non siano mancate, soprattutto all’inizio, note calanti - ma priva di trasporto, piuttosto uniforme della scelta delle dinamiche, laddove proprio la loro contrapposizione, i crescendo, ne costituisce  suggestivo elemento caratteristico. L’esecuzione appare eccessivamente sbrigativa e asettica, imperniata sulla ricerca di un suono troppo prosciugato, quasi tagliente, che mal si concilia con la dolce cantabilità della linee melodiche di Schubert e che, nella suo prosciugarsi, omette di evidenziare quel “contrasto d’affetti” rapsodico che costituisce la spina dorsale della composizione.

Con il successivo Quartetto n. 5 di Béla Bartók, composto nel 1934, il Quartetto Kelemen trova una composizione che invece si addice perfettamente al suono e alla visione interpretativa del complesso cameristico: il procedere per sbalzi del quartetto di Bartók, con la sua ritmica esasperata, sincopata, esalta il suono tagliente, immediato del Kelemen, consentendogli di disegnare un bozzetto desolato (il secondo movimento, Adagio molto) dalle fattezze espressioniste, nel quale si rincorrono, con perfetta fusione strumentale, pizzicati, lugubri rintocchi di corde a vuoto e gli effetti sarcastici dei glissandi.

Gli altri movimenti - in particolare il terzo, Scherzo: alla bulgarese - sono un tripudio di danze deformate e di canti popolari tanto cari al compositore ungherese, nei quali il Quartetto Kelemen si immerge con sicurezza, mostrando un’ottima tenuta ritmica e coesione, sfoderando sonorità aguzze, adeguate allo spirito “barbarico” della composizione.

Con il meditativo Beethoven del Quartetto in fa maggiore op. 59 n.1, Razumovsky riemergono quei limiti nell’approccio interpretativo che si erano manifestati con il Quartettsatz schubertiano in apertura del concerto: la pulizia esecutiva appare migliorata rispetto allo Schubert d’apertura, così come la ricerca di sonorità più smussate, ma sembrano latitare ancora quell’immergersi profondo della scrittura, la tensione che Beethoven lascia intravedere in filigrana tra le pagine del primo quartetto dedicato al Conte Andrea Kyrillovic Rasumovsky; la cantabilità solenne e nostalgica del sublime Adagio molto e mesto del terzo movimento - definito da Beethoven stesso come “Un salice piangente o un'acacia sulla tomba di mio fratello” - è così immediata che non richiede sforzi interpretativi per emergere e coinvolgere, evidente com’è per la bellezza dei temi, a cominciare da quello esposto, con suono caldo, rotondo e pastoso, dal violoncello di Mon Puo.

Il successo che riscuote il Quartetto Kelemen impone la concessione di ben due bis: si incomincia dall’ultimo movimento, Allegro molto, dal Quartetto per archi n. 9 in do maggiore, op. 59 n. 3, sempre dedicato al Conte Rasumovsky, che consente di evidenziare le qualità tecniche del giovanissimo quartetto ungherese nello staccare un tempo quanto mai incalzante e sostenuto, nonché nel creare sonorità che appaiono dei lampi sonori.

Con il secondo encore si torna nella patria, musicale e di nascita, d’elezione del complesso cameristico: il secondo movimento, Allegro molto capriccioso,dal Quartetto per archi n. 2, op. 17 di Béla Bartók. Qui il Kelemen ha la possibilità di abbandonarsi al demone della danza vertiginosa e barbarica che connota il movimento, incorniciato da una esplosione pulviscolare e iridescente di impasti timbrici di rara bellezza.


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