Beethoven spaginato

 di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia chiude la stagione da camera nell’anno solare 2019 con uno straordinario recital di Evgeny Kissin, una serata monografica su Ludwig van Beethoven. Kissin esegue: la Sonata n. 8 in do minore, op. 13 “Patetica”, le 15 Variazioni e Fuga in mi bemolle maggiore, op. 35 “Variazioni Eroica”, la Sonata n. 17 in re minore op. 31 n. 2 “La tempesta” e la Sonata n. 21 in do maggiore, op. 53 “Waldstein”. Il concerto è un autentico successo, premiato da una folta affluenza di pubblico.

ROMA, 9 dicembre 2019 – Il cristallino talento di Evgeny Kissin è oramai noto a tutto il mondo. È, quindi, un piacere che si faccia vedere a Roma così spesso ultimamente, persino a distanza di pochi mesi. L’ultima volta ha eseguito il Secondo concerto di Liszt, sotto la direzione del maestro Antonio Pappano (leggi  la recensione); ora esegue un poderoso programma beethoveniano, dove certo non si risparmia, sia fisicamente che interpretativamente.

Il primo tempo, infatti, prevede l’esecuzione della Patetica, seguita dalle “Variazioni dall’Eroica”. Ciò che stupisce, ancora una volta, del talento di Kissin non è tanto la pulizia assoluta della linea sonora, tanto della mano sinistra quanto della destra, o l’uso parco, atmosferico e delicato della pedaliera, senza strafare in effetti esagerati; quanto il suo essere sempre interprete partecipe dell’hic et nunc, di ogni esecuzione, che rende unica nel suo genere, coinvolgendo il pubblico quasi stesse disvelando un mistero. Ricurvo, intimistico, Kissin riesce a trascinare le folle senza quell’apparato di retorica virtuosistica tanto caro a molti interpreti ‘muscolari’. Non che – si badi – ci sia qualcosa di male nel saper essere un virtuoso del pianoforte; ma Kissin dona qualcosa di intangibile al suono, e di inimitabile, né ben descrivibile a parole. La magia esecutiva di Kissin, quindi, la si apprezza bene nei particolari, nelle scelte raffinate che fa, nel dosaggio millimetrico dei colori. Ciò è perfettamente visibile fin dalla Patetica. Il Grave è eseguito con quella retorica ‘patetica’ giusta, senza sovraccarico, facendo parlare i colori stessi del pezzo. L’Allegro scatta naturalissimo, in tutto il suo sviluppo, carico della giusta dose di brillantezza, senza renderlo troppo ‘romantico’. L’Adagio cantabile è commoventemente perfetto: la musica di Beethoven culla l’orecchio, carezzando l’animo di chi ascolta fino alla commozione. Anche nel Rondò Kissin è sensibilissimo ai colori, ai volumi che rimangono, comunque, soffusi, quasi ci abbia invitato nel suo salotto per suonarci, in confidente amicizia, un pezzo di un compositore cui è molto legato. Dopo uno sforzo notevole come quello di leggere la Patetica, che potrebbe costituire quasi il centro del programma di un concerto, cui aggiungere qualcosa di contorno, Kissin si profonde nelle elaboratissime Variazioni op. 35, le “Eroiche”. La sequela di variazioni, che possono solo ad un orecchio naïf sembrare un mero sfoggio virtuosistico, è di una difficoltà notevole: «la loro poetica è terribilmente sfaccettata e richiede all’interprete e al pubblico una attenzione spasmodica nel capire una costruzione labirintica» (belle le parole di P. Rattalino, da un emozionante – direi – programma di sala). La lettura di Kissin non è solo di una strabiliante geometria nella sua linearità, chiarezza espressiva, ma rende pure assolutamente scoperte le intenzioni, appunto, labirintiche del dettato di Beethoven; un labirinto dentro cui – in fin dei conti – Beethoven ci porta per mano, nello sbandolare la matassa delle variazioni di un’idea di fondo che si trasfigura metamorfizzandosi. Una tecnica, peraltro, quella delle variazioni assai amata da Beethoven, che ne compose diverse serie (Kissin ne citerà una nel secondo dei tre suoi bis). Vorrei qui notare l’impressionante naturalezza con cui Kissin ha eseguito, all’inizio, il tema principale, l’idea che poi sarà variata. Sono molti gli interpreti che hanno legato il loro nome all’esecuzione di questo pezzo: ebbene, Kissin ne dà forse tra le rese più naturali, spontanee quasi, che mi sia stato dato di udire.

Quasi noncurante della stanchezza fisica e interpretativa profusa nel primo, densissimo, tempo del concerto, Kissin presenta nel secondo, una dopo l’altra, La tempesta e la Waldstein. Proprio come nella Patetica, così anche ne La tempesta ciò che è realmente sensazionale è proprio il naturalissimo controllo della tavolozza dei colori e dei volumi, tanto da non sacrificare né il virtuosismo né la naturalezza del gesto delle frasi beethoveniane. Ancora incanta il trapasso dal Largo con cui inizia il primo movimento, così atmosferico, al trascinante Allegro vivace: negli arpeggi, che si ripetono più di una volta a dare l’abbrivio al pezzo, Kissin pone un’attenzione impressionante alla lunghezza delle note, come aveva già fatto Gould. L’Adagio grazioso, proprio come il corrispettivo movimento della Patetica, è eseguito con impareggiabile grazia: è un pezzo di una grazia genuina, solo lievemente venata da qualche colore più scuro, che Kissin impasta con perizia nel discorso musicale. Il celebre modulo ondulato ascendente del Rondò che chiude la sonata è suonato badando agli accenti, alle intensità e alle indicazioni più recondite della scrittura di Beethoven, ponendo attenzione a mantenere ipnoticamente soffuso l’accompagnamento. Il concerto è concluso da un’altra sonata monumentale, la Waldstein. Qui il virtuosismo di Kissin si fa percepire in tutto il suo smalto, sia nell’Allegro con brio che nel finale Rondò, che riesce splendido, con la melodia, cantabilissima, ‘cavata’ fuori dal profluvio di note di accompagnamento. Incredibile la padronanza straordinaria della tavolozza dei colori di questa sonata, che si arricchisce rispetto alle altre di sonorità più gioiose, in un certo senso, più vitalistiche. Magnifici gli effetti chiaroscurali dell’Adagio molto, in cui Kissin dimostra ancora una volta di avere un tocco quasi fatato, se vuole.

Un’ondata di applausi invade la sala. Il pubblico reclama bis; ma, dopo un programma del genere, ogni bis sarebbe quasi superfluo. Kissin, invece, aggiunge, semmai, un’appendice beethoveniana che ha con il concerto un profondo senso d’intenti. In linea con lo slancio vitalistico della Waldstein, in particolare con i colori accesi del finale Rondò, sono la deliziosa Prima Bagatella della raccolta dell’op. 33, il primo bis, e quella in do minore, il terzo bis. Fra queste due bagatelle, Kissin inanella le brevi ma deliziose Sei variazioni op. 76, dove ci apre ancora una porticina sull’arte della variazione in Beethoven.