Voce di luce, June Anderson a Firenze

di Francesco Lora

Al Maggio Musicale Fiorentino un cambiamento di programma dell’ultimo momento riporta June Anderson in Italia: programma diviso tra chansons francesi e songs statunitensi, con due bis rossiniani. Sempre immacolate l’autorevolezza della belcantista e la simpatia dell’interprete.

FIRENZE, 25 maggio 2014 – Voci magnifiche e servite dal disco, ma anche tradite dal disco stesso. Voci che patiscono lo scherzo di eccedere le possibilità tecnologiche e di risultare dunque non fonogeniche. Càpita spesso ai soprani di coloratura: chi non le ha mai potute ascoltare dal vivo crede forse di recuperare nelle incisioni l’esperienza uditiva di Luciana Serra o di Edita Gruberova; tecnica e stile sono in effetti tramandati in modo attendibile, ma nessuna registrazione è finora riuscita a trattenere il calore timbrico della prima anche nell’arrampicarsi su per la terza ottava, né alcuna registrazione è riuscita a fissare l’emissione alata della seconda, grazie alla quale ogni nuovo suono sembra galleggiare sui precedenti non ancora estinti. È questo il caso anche di June Anderson: già maliosa in disco, dal vivo la sua voce ha una radiosità, un’effusione, un bagliore non alla portata dei microfoni, e che mai potranno essere immaginati da chi non l’abbia avuta davanti in carne e ossa. Per il vociofilo, così, diviene imperativo inseguirla da un teatro all’altro, anche oggi che la carriera si è assestata su ritmi meno frenetici ed è entrata nella pace di un autunno opulento e sereno.

Qualche santo protettore dei melomani ci ha messo lo zampino: nel cartellone del Maggio Musicale Fiorentino era annunciato, per il 25 maggio nel Teatro Goldoni, un recital del basso Vitalij Kowaljow; poi, a sostituirlo su due piedi, è arrivata la Anderson stessa, portando al séguito il pianista Jeff Cohen e un programma già presentato al Théâtre du Châtelet di Parigi. La ricca serie di brani si divideva in due filoni. Da una parte l’estenuata eleganza delle chansons francesi di Gabriel Fauré (Mandoline, Clair de lune, Les Berceaux, Après un rêve), Claude Debussy (Beau soir, Romance, Regret) e Francis Poulenc (Fancy, Priez pour paix, C, La Dame de Monte-Carlo). Dall’altra lo slancio e il languore dei songs statunitensi di Leonard Bernstein («Dream with me» da Peter Pan e «A little bit in love» da Wonderful Town), Stephen Sondheim («Green finch and linnet bird» da Sweeney Todd e «Losing my mind» da Follies), Kurt Weill («My ship» da Lady in the Dark di Ira Gershwin e Youkali, Tango Habanera di Roger Fernay) e Jerome Kern (Yersterdays da Roberta e «Can’t help lovin’ that man» da Showboat).

Molto Novecento, dunque, per una primadonna celebrata soprattutto nel belcanto italiano ottocentesco di Gioachino Rossini, Gaetano Donizetti, Vincenzo Bellini e Giuseppe Verdi. Qualche punto da sfatare c’è: la Anderson è laureata a pieni voti in lingua e letteratura francese, così da far sembrare meno insolito l’approccio a Fauré, Debussy e Poulenc; come ella stessa ha ribadito in prossimità del recital, poi, per un cantante statunitense intonare i songs di Bernstein & C. è tanto naturale quanto per un italiano intonare canzoni napoletane. Nello stesso tempo, soprattutto tra i francesi emerge la formazione belcantistica nel suo senso più asciutto: l’innato sfolgorio della voce della Anderson tocca ogni brano in modo affine, con uniforme bellezza di suono valida a ogni fine estetico ed espressivo; tutto è riposto nella contemplazione delle note, mentre le parole, anche quando siano firmate da Paul Verlaine o da Jean Cocteau, paiono mero supporto di un discorso musicale più importante. Non è sbagliato: qui il gioco è della Anderson, e le regole sono dettate da lei.

Altra questione e di segno opposto è quella dei songs americani: assestati su una tessitura vocale più mediana e destinati a una fruizione più popolare, in essi la Anderson depone l’astratto involo liberty e gioca tutto sulla parola ammiccante, ironica, viva a costo di stropicciare un timbro tanto immacolato e un legato tanto aristocratico. Come spesso accade, gli assi sono calati al momento dei bis, tra gli applausi devoti di un pubblico sparuto poiché allertato all’ultimo momento: la primadonna torna al trono della grande rossiniana, da una parte porgendo omaggio al capoluogo toscano con l’aria da camera La fioraia fiorentina, dall’altra (e soprattutto) appendendo al proprio canto il sospiro dell’uditorio con la preghiera di Anna Erisso nel Maometto II. Lì, in «Giusto Ciel! In tal periglio», qualche acuto si è fatto più aguzzo rispetto a un tempo, ma i gruppetti sono svolti con una liquidità inarrivabile, e l’autorevolezza d’accento è quella di chi ha dominato le scene al culmine della Rossini-Renaissance. Bentornata, voce di luce!