Omaggio a Roma

 di Stefano Ceccarelli

Nella splendida cornice del Circo Massimo, Anna Netrebko e Yusif Eyzanov, diretti da Jader Bignamini, danno un recital imperniato, ma non esclusivamente, su musiche veriste: sfilano così arie, duetti e pezzi di Giuseppe Verdi, Francesco Cilea, Giacomo Puccini, Michail Ivanovič Glinka, Antonín Dvořák, Pietro Mascagni e Umberto Giordano.

ROMA, 6 agosto 2020 – Anna Netrebko e Yusif Eyvazov si esibiscono nella storica cornice del Circo Massimo, sullo sfondo del Palatino con i suoi monumentali Palazzi imperiali. La notte romana, benché a tratti fastidiosamente rumorosa, offre una piacevole brezza e il Teatro dell’Opera di Roma allestisce – come doveroso – tutte le misure di sicurezza previste per il contrasto alla diffusione del Covid-19.

L’orchestra, adeguatamente distanziata, è diretta dal maestro Jader Bignamini. Anticipo già che Bignamini farà un lavoro al solito eccellente: ha tocco, delicatezza, ma anche verve ed energia quando serve. Lo si percepisce già dall’ouverture del Nabucco di Giuseppe Verdi, con cui inizia il concerto. L’orchestra fa tutto il possibile per mantenere i colori di un’ouverture non solo marziale, ma anche delicata e tenera, che presenta i suoi passaggi più famosi, certamente, nelle sezioni più concitate, dove l’orchestra si serra in stretti ribattuti e il ritmo si gonfia. Bignamini legge questa celebre pagina con eleganza, senza mancare di dirigere ben energico le parti di cui parlavo poco sopra. Il programma, che si intitola Omaggio a Roma, è imperniato sugli autori italiani ‘veristi’, non mancando qualche incursione nel repertorio tardo-romantico slavo (Dvořak) e romantico russo (Glinka), che portano un po’ la cultura d’origine degli interpreti a Roma.

Dopo il Nabucco, segue coerentemente l’Otello di Verdi – il programma è basato a blocchi di autori. Naturalmente, si tratta del duetto «Già nella notte densa», un pezzo straordinario ma anche straordinariamente difficile. Lo stile è quello sensuale e orientaleggiante del Verdi di Aida, che nell’Otello trova l’ultima sua grande prova in tal senso. Purtroppo, Eyvazov comincia già a palesare tutta una serie di problemi che si porterà dietro per l’intera serata, fra cui bisogna sottolineare momenti di intonazione periclitante. L’emissione appare lievemente sfibrata e ‘indietro’ (cioè poco svettante, ‘ingolata’ come dicono alcuni per semplificare); il timbro, brunito e non particolarmente accattivante, ne risente e il prodotto è una linea di canto che potrebbe essere interessante per talune scelte estetiche, ma che è – appunto – penalizzata dai problemi da me sopra indicati. Al contrario, la Netrebko è assolutamente perfetta, giocando con i passaggi chiaroscurali di una scrittura tutta basata sul colore dei sentimenti dei due innamorati che si rivedono dopo tanto tempo (e dopo uno scampato pericolo). La Netrebko culla letteralmente le frasi più dolci («Oh! com'è dolce il mormorare insieme: te ne rammenti!», per esempio), dà i primi esempi di filati cristallini; mostra un controllo di fiati e intonazione eccezionali.

Insomma, Anna Netrebko è praticamente perfetta per tutta la serata. Appena dopo Otello, è lei a rimanere in scena e a cantare «Del sultano Amuratte… io son l’umile ancella» dall’ AdrianaLecouvreur di Francesco Cilea. La sua voce stupenda, ricca, calda, pastosa, uniforme in tutti i registri scorre come un fiume nel fraseggio concitato dell’aria di Cilea; la cantante inanella una serie impressionante di acuti, con uno smorzando finale da manuale. Da sola canterà ancora due arie: «Vissi d’arte» dalla Tosca di Giacomo Puccini e «Měsíčku na nebi hlubokém», cioè il “Canto alla luna” da Rusalka del già citato Antonín Dvořák. Ambedue fanno parte del suo repertorio stabile (come del resto l’aria di Adriana) e non può certo deludere le aspettative del pubblico: ambedue, infatti, sono splendidamente eseguite. In «Vissi d’arte» la Netrebko mostra come lei sappia giocare dosando il fiato quel tanto che basta per produrre un pianissimo e permettere che sia udito in un ambiente all’aperto. Tutta la prima parte dell’aria, infatti, è sommessa, mentre nella seconda vien fuori tutto il dolore di Floria, che la Netrebko rende con acuti penetranti e dall’intonazione perfetta. La celebre “Canzone dalla luna” dalla Rusalka, un cavallo di battaglia della cantante, è forse il pezzo meglio eseguito (se dovessi sceglierne uno) dalla Netrebko: il suo timbro ammaliante è dosato in un fraseggio che esalta la melodia dolcissima che Dvořák disegna, riprendendo la tradizione romantica e fatata della prima metà del XIX secolo. Netrebko rende perfettamente l’atmosfera trasognata di tutto il brano; il cambio d’abito (da uno bianco a campana a uno luccicante e più attillato), poi, giova a rimarcare, quasi, una cesura nel concerto – è l’ultima aria che canterà da sola, prima del bis, come vedremo.

Eyvazov, al contrario della straordinaria consorte, risulta decisamente mediocre. Da una parte c’è proprio un problema di scelte estetiche, dall’altra pesa tutto ciò di cui ho parlato sopra. Insomma, da solo lui canterà «È la solita storia del pastore» da L’Arlesiana di Cilea, la celeberrima «E lucean le stelle», sempre dalla Tosca, e l’ultima aria di Turiddu dalla Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, cioè «Mamma, quel vino è generoso». Ne l’Arlesiana, dove pure riesce a trovare una dignitosa linea di canto, il problema sta nel timbro poco adatto al ruolo. Se nella Tosca talvolta trova qualche sprazzo di controllo del mezzo, pur con tutta una serie di problematiche, nella Cavalleria rusticana, dove all’interprete si richiede quasi di piangere cantando, cioè di esprimere un dolore misto di tenerezza filiale, amore e rimorso per l’infamia causata, ebbene, tutto ciò viene appiattito da un’esecuzione incolore, piuttosto attenta a eseguire la nota che a cantarla.

Gli altri duetti in cui i due si cimentano presentano la medesima situazione di quello di Otello: la Netrebko è centratissima nell’intonazione, ove Eyvazov palesa alcuni problemi. Il primo è quello dal I atto di Tosca («Mari! Mario!»), dove Netrebko regala dei passaggi stupendi, come sulle frasi «Non la sospiri la nostra casetta etc.». Il secondo è quello conclusivo, «Vicino a te», da Andrea Chénier di Umberto Giordano. Qui, i due sono particolarmente affiatati nel salire e nel gonfiarsi della tensione musicale, anche se nella parte finale è ancora Eyvazov ad avere qualche passaggio a vuoto.

Fra un duetto e un’aria Bignamini dirige alcuni intermezzi musicali. Oltre al già ricordato Nabucco, esegue un toccante e delicato intermezzo sinfonico dalla Manon Lescaut e “La Tregenda” da Le villi, ambedue di Puccini. Il passo de Le villi, che rappresenta l’entrata in scena delle villi su una galoppante tarantella, è colto in particolare nelle sue note brillanti. Poi, è la volta di un omaggio alla cultura russa: l’ouverture da Ruslan e Ljudmila di Michail Ivanovič Glinka, un pezzo brillante, dalla melodia accattivante e certamente ben eseguito. L’ultimo pezzo diretto da Bignamini, l’intermezzo da Cavalleria rusticana, commuove per la sua bellezza.

Alla fine del concerto i coniugi eseguono, a mo’ di bis, un’esecuzione di Chitarra romana adattata per due voci. Non è particolarmente entusiasmante, soprattutto nella versione lirica, anche se, per esempio, già Pavarotti l’aveva cantata in recital. Vuole forse essere un regalo ‘romano’ a Roma. Comunque, più interessanti sono certamente i singoli bis dei due cantanti. Per Netrebko, «O mio babbino caro» dal Gianni Schicchi di Puccini, un altro suo cavallo di battaglia, che manda in delirio il pubblico. Per Eyvazov, l’impervio «Nessun dorma» dalla Turandot, che gli causa – come c’era da prevedersi – non pochi problemi. Comunque, il pubblico applaude calorosissimo la sua amata Netrebko; certamente meno lo è Eyvazov, che comunque riceve consensi. Anche Bignamini, a capo dell’orchestra del Costanzi, si prende i suoi meritati applausi.