L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Passione toscana

di Irina Sorokina

Il viaggio dell'Arena di Verona nei secoli e negli stili giunge a Puccini. Dopo Gianni Schicchi, un Galà entusiasma il pubblico con pagine da La bohème, Madama Butterfly e Tosca affidate a Piero Pretti, Eleonora Buratto, Hui He, Alberto Gazale e Maria José Siri diretti da Andrea Battistoni

VERONA, 22 agosto 2020 - Continua il viaggio emozionante ideato dalla direzione artistica dell’Arena di Verona nei tempi difficili, anzi, insopportabili del coronavirus. Un viaggio attraverso secoli e stili vocali che è anche un ritratto d’Italia, paese meraviglioso, ma per niente facile. Non lo era nell’Ottocento in cui vissero Rossini e Verdi e  debuttò Puccini; non lo era nel Novecento in cui svolse la maggior parte della carriera del compositore toscano, beniamino delle prime donne; non lo è oggi. Ed è la musica di Puccini, dopo quella di Rossini e Verdi, che segna il week end appena concluso. Una piccola cosa venerdì (ma non è proprio piccola), Gianni Schicchi in forma semiscenica, e una grande sabato, un galà con la partecipazione di alcuni interpreti eccellenti della musica del maestro lucchese.

La “filosofia” del programma appare ben chiara ed imparentata col galà Rossini: una parata dei brani celebri dalle opere più amate strutturata per “blocchi”. Si ascoltano tre brani da La bohéme, altrettanti da Madama Butterfly, due da Manon Lescaut, altrettanti da Tosca e l’intero atto terzo dalla medesima opera; per dare un’impronta particolare e, forse, stimolare la curiosità dell’ascoltatore, all’apertura vengono eseguiti due frammenti dall’opera d’esordio, Le Villi. Un bel programma, promettente, a cui non possiamo rimproverare nulla.

Il tono energico conferito all’apertura della serata dall’esecuzione di due pezzi da Le Villi non le nuoce di certo. In pochi conoscono la prima opera di Puccini, in meno sanno della sua stretta parentela con il capolavoro assoluto del balletto romantico, Giselle. Il libretto di Ferdinando Fontana si ispira, infatti, dal testo di Théophille Gautier (1841). Sono niente male, due brani scelti, La Tregenda, una specie di tarantella indiavolata per orchestra (atto II), e il coro “Evviva i fidanzati!” (atto I), danno un’idea precisa dello stile del giovane compositore, il cui sangue caldo sangue toscano promette bene.

Un eterno capolavoro, La Bohème, viene presentato in una sequenza vincente: un brano celebre succede all’altro, da “Che gelida manina…” si passa attraverso “Mi chiamano Mimì” al duetto “O soave fanciulla” che conclude il primo quadro. Il profumo della giovinezza non è appesantito da qualche nota amara e a trasmetterlo sono chiamati il tenore Piero Pretti e il soprano Eleonora Buratto. Pretti si rivela da subito un interprete eccellente della musica pucciniana; intona le frasi iniziali con un’accuratezza quasi inaudita e una dolcezza tutta sua. Gestisce saggiamente le dinamiche e i colori; la voce leggera, ma non per questo priva di spessore, suona molto naturale, come se volesse conquistare l’orecchio e mai imporsi. La linea del suo canto intelligente e misurata è sempre impeccabile e il do non rivela alcuna fatica. Il soprano dà una valida risposta al tenore; la voce di Eleonora Buratto è ben tornita e ricca di colori, ma anche delicata e sensibile. Non sempre si sentono cantanti assortiti così bene nei ruoli di Rodolfo e Mimì; intonano con abbandono, ma senza esagerare “O soave fanciulla” coronato da un buon acuto senza sforzatura. Il primo “blocco” della serata di gala è segnato da puro piacere e grande successo di pubblico.

Troviamo difficilissimo il compito affidato alla cantante cinese Hui He, una delle presenze costanti in Arena negli ultimi anni e in un certo senso una garanzia. Le tocca a cantare due assoli da Madama Butterfly, parte giustamente considerata “assassina della voce”. Conosciamo bene la resistenza vocale di questo soprano di tutto rispetto anche se non dotato di un particolare carisma; soddisfa le aspettative e caccia via le paure intonando “Un bel dì vedremo”, tuttavia, non troviamo il suo canto, pur sicuro ed espressivo, sufficientemente vibrante. Il coro a bocca chiusa crea una pausa gradita; in questa celebre pagina pucciniana gli artisti danno il loro meglio, per quanto riguarda la delicatezza di linea di canto e sfumature sottilissime, ma non sarebbe potuto andare diversamente. Un attimo di silenzio quasi sacro prepara il temuto monologo della “povera farfalla”: “Tu, tu piccolo iddio”. Hui He lo intona sfoggiando la sua voce salda, una tenuta impressionante e riesce a provocare commozione nella sala a cielo aperto, sussurrando “Gioca, gioca”.

In ogni galà pucciniano non può mancare l’Intermezzo da Manon Lescaut, capolavoro di un Puccini fresco e giovane. Dà il suo meglio Andrea Battistoni alla guida dell’orchestra areniana; vive ogni nota con le mani “volanti” e col corpo intero. Gli archi suonano in modo eccellente, producono mille sfumature per trasmettere lo spirito di rassegnazione e abbozzare una flebile speranza. Un successo veramente notevole, buona preparazione di “Sola, perduta, abbandonata” interpretata da Maria José Siri.

Il soprano uruguayano, sentito molte volte alla Scala, è una specie di garanzia per la buona riuscita della serata, simile alla sua collega cinese Hui He. Dotata di voce importante, ampia e instancabile, è una musicista eccellente, “specialista” in sonorità sottili e sfumature raffinate. Sussurra quasi la frase iniziale e pecca di  una posizione troppo bassa in “Son sola”; il suo canto risulta a tratti un po’ monotono e l’acuto leggermente barcollante. Tuttavia, si riscatta intonando “Non voglio morir” ed è subito successo. Toccherà a lei presentare la sua interpretazione di “Vissi d’arte”, ma prima il baritono Alberto Gazale, ben noto al pubblico areniano, canta “Tre sbirri… una carrozza…”, affiancato da Carlo Bosi e dal coro areniano.

Da sempre il brano da un forte impatto emotivo, il Te Deum da Tosca è una prova importante per un baritono. In Arena hanno deciso di dargli “un aiutino” e sono ricorsi alla teatralizzazione attraverso luci suggestive e colpi di cannone. Non era necessario, a nostro parere; avremmo preferito di sentire il baritono “nudo”, per poter apprezzare tutte le sue qualità. Alberto Gazale canta dignitosamente il monologo del diabolico capo della polizia romana; il suo declamato è incisivo e di peso giusto, il legato è buono e i colori non mancano. Tuttavia, il suo Scarpia non rivela la cattiveria e il sarcasmo che si aspettano, sembra a tratti un accurato impiegato d’ufficio.

Per "Vissi d’arte" c’è l'obbligo di creare magia e dal soprano incaricato si pretende davvero tanto, forse, troppo. La voce di Maria José Siri risulta leggermente scolorita nella frase iniziale, ma man mano acquista spessore e giusto colore. L’esibizione areniana ci dà l’impressione di una brava, bravissima professionista che, però, deve ancora trovare qualcosa di importante, indimenticabile che appartiene solo a lei. Applausi generosi al suo "Vissi d’arte".

A conclusione della serata, l’intero terzo atto dell’opera romana di Puccini, con una grande attesa per “E lucevan le stelle” di Marcelo Alvarez. Le atmosfere magiche create dai suoni delle campane romane, il canto del pastorello (un Marco Bianchi dall’intonazione a tratti imprecisa) e si arriva finalmente a un “E lucevan le stelle” che supera ogni aspettativa. Marcelo Alvarez, di cui ricordiamo molte esibizioni superlative e alcune non proprio tali, stavolta ci delizia con la sua voce morbida, calda, dal timbro lucente, bellissimo legato e espressivo accento, e soprattutto per noti dolenti che toccano l’anima in profondità. Un’interpretazione magistrale, non danneggiata da un paio di attimi brevissimi in cui la voce sembra svanire, seguita da un’ovazione del tutto giustificata. Armonia piena di due belle voci, quelle di Alvarez e Siri, nel duetto “O dolci mani”.

Ad Andrea Battistoni il merito di essere catalizzatore della serata; possiamo considerarlo anche una specie di ”cimento” riuscire a dare un senso alla successione dei brani e trovare i colori brillanti e una gamma di sfumature davvero importante. Energico, da sempre dotato dalle qualità di leader, presta attenzione a tutti i gruppi di strumenti ed è capace di valorizzarli. Dai raffinatissimi pizzicati degli archi nel coro a bocca chiusa della Butterfly ai dolorosi passaggi cromatici dell’Intermezzo di Manon Lescaut e sonorità spesse e splendenti di Te Deum di Tosca, la direzione di Battistoni è sempre molto spettacolare, altamente professionale, efficace al massimo e dall’impronta personale inconfondibile. Il pubblico veronese lo adora da sempre, e lo merita in pieno.

Una bella, anzi bellissima serata, incoronata dalla doppia esecuzione del finale di Turandot che suona come un inno alla musica di Puccini, uno sei simboli d’Italia. Grandissimi applausi ai protagonisti della serata, validi comprimari Carlo Bosi, Dario Giorgelè, Gianfranco Montresor, il coro areniano preparato da Vito Lombardi e una certa fatica di andare via dalla parte del pubblico. Del resto, è difficile svincolarsi dalla passione amorosa di un toscano doc, chiamato Giacomo Puccini.


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