Ai piedi della croce

di Antonino Trotta

Nel giorno che precede la chiusura temporanea dei teatri, il Teatro Coccia di Novara allestisce una bellissima versione scenica dello Stabat Mater di Pergolesi affidato alla bacchetta di Matteo Beltrami e al guizzo registico di Renato Bonajuto.

Novara, 24 ottobre 2020 – Salutare il teatro, a marzo, francamente era stato più facile. Allora non si capiva ancora, né si immaginava appieno, quanto la situazione potesse sfuggire di mano; si metabolizzava la rinuncia a uno spettacolo confortati dalla prospettiva di quello immediatamente successivo finché quell’agognato orizzonte temporale, la cui distanza si cominciava a misurare in numero di morti e contagiati piuttosto che in secondi, s’è allontanato a dismisura. Soprattutto era stato diverso l’ultimo spettacolo a cui si era assistito, bello o brutto che fosse, vissuto all’oscuro – o forse al riparo – delle ombre cupe del domani, magari liquidato con la consuetudine di chi a teatro va una sera sì e l’altra pure. Stavolta, purtroppo, non è stato così e sabato sera, varcando la soglia dell’Arengo del Broletto, succursale del virtuosissimo Coccia di Novara per la stagione Resilienza iniziata e forse finita nel giro di un paio di giorni, l’odore della disfatta appestava già l’aria. Ecco allora che la Stabat Mater, probabilmente la sequenza più commovente dell’intera letteratura cattolica, assume in un valore particolarmente significativo. Essa sublima il dolore della Madre piangente ai piedi della croce, cristallizza il cuore della vocazione cristiana nel desiderio di condivisione della sofferenza, indica il sacrificio quale unico sentiero instradato verso la salvezza, che si creda oppure no.

Impegnate nel ruolo di soliste, Mariam Battistelli e Aurora Faggioli giocano bene le proprie carte: soprano dal timbro iridescente la prima, mezzosoprano dallo strumento morbido e corposo la seconda, si avvicendano in un chiaroscuro sonoro di innegabile fascino. Alla guida dei bravissimi complessi I virtuosi italiani, Matteo Beltrami dirige le pagine di Pergolesi con ispirata carica teatrale, fraseggio vivo e teso, rigore ritmico e una grande varietà di colori che muta e trasmuta alla bisogna del momento drammatico per confezionare, nel complesso, una lettura coinvolgente, dinamica, che non contempla estatica un’effige, piuttosto provvede ad animarla. In effetti di quadri viventi si tratta perché la suggestiva traduzione scenica ideata da Renato Bonajuto, che s’impone di porre l’uomo al centro del percorso di creazione dell’Arte affinché egli possa «riscoprire la verità della propria anima attraverso l’espressione e l’incanto dell’espressione artistica», vivifica sul palcoscenico tele e gruppi scultorei, conservati nei musei del novarese, come La deposizione di Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, La flagellazione di Daniele Crespi, L’incoronazione di spine del Vermiglio.

Per quanto semplice nella sua realizzazione, lo spettacolo del Coccia non lascia nulla al caso e assicura sempre un colpo d’occhio mozzafiato. Nell’elegante assieme di scenografia e costumi creato da Danilo Coppola, la coreografia di Giuliano De Luca, affidata a un complesso di ballerini non meno scultorei del marmo – Francesco Alfieri, Rocco Ascia, Alice Bellora, Emanuele Cappelli, Arianna Lenti, Alessio Urzetta –, definisce con cura i movimenti scenici sicché ogni gesto, illuminato e ingentilito dall’eloquenti luci di Ivan Pastrovicchio, risulta armonioso e soprattutto mai privo di significato.

Ancor più toccante, soprattutto in virtù del momento che si sta vivendo, è però quanto accade durante l’esecuzione della seconda raccolta di Arie antiche e danze per liuto di Respighi, concertata con pathos dal giovane Tommaso Perissinotto – studente di Direzione d’Orchestra dell’Accademia dei Mestieri dell’Opera AMO –, dove Bonajuto immagina «gente del popolo che entra in visita nella Bottega dell’Artista, luogo deputato nel Rinascimento e anche dopo, sino a Caravaggio e coevi, alla fucina del talento e allo sviluppo del percorso dell’arte; osservando le opere dei Maestri, queste persone si spogliano della propria identità e diventano veri e propri modelli per il pennello o lo scalpello dell’artista, assumendo così le vesti dei protagonisti della Passione raccontata dalle magnifiche note di Pergolesi». Non è forse quello che accade, ogni sera, quando in teatro artista e pubblico si congiungono, quando mittente e destinatario si pongono gli uni di fronte agli altri appena separati da una buca orchestrale?

Questa non è la fine della civiltà. L’Arte è ancora lì, pronta a nascere e rinascere, come i tableaux vivants sgusciati via da pezzi di tela, come le vibrazioni dell’aria chiamate a sgorgare da puntini su un foglio di carta. Purché non manchi chi è in grado di fruirne, purché ci sia ancora qualcuno che ha voglia di farla. Passerà.