Il festival delle ombre vaganti

di Roberta Pedrotti

Si apre in un teatro senza pubblico, con un pianoforte solitario a suonare per i rossiniani collegati da tutto il mondo, la sessione autunnale del Rossini Opera Festival 2020. Il Rof c'è e anche in quest'anno strano e terribile non rinuncia a offrire rarità come i due inediti suonati da Alessandro Marangoni nel suo programma dedicato ai Péchés de vieillesse.

PESARO, 14 novembre 2020 - Che piove, stasera, a Pesaro lo vediamo poi, dalle fotografie pubblicate dal sindaco sui social.

Già non eravamo abituati al Festival d'autunno e avevamo accolto la novità come la possibilità di un riscatto per questo sciagurato 2020, confidando in un miglioramento della situazione. Una speranza piccola piccola, che coccolavamo con scaramanzia, magari senza illudersi fino in fondo, ma nemmeno pensando che invece saremmo stati in casa, davanti a un computer, in pigiama e pantofole.

Niente perlustrazioni in piazza Lazzarini per incrociare uno sguardo amico o un volto familiare, niente aperitivo nei locali storici accanto al teatro, niente capannelli alla fine alla fontana o all'ingresso artisti per commentare e organizzare una cena o almeno una birretta.

Niente. Fa una bizzarra impressione Pesaro senza Pesaro, senza quell'aria che appena scesi dal treno ti fa sentire nel cuore la sortita di Tancredi, “Oh patria...”

In questo strano autunno di questo strano anno terribile Pesaro si materializza negli schermi di casa, un Poltergeist benigno che ci ricorda perché val la pena resistere, dopo aver resistito in agosto con i concerti e Il viaggio a Reims in piazza, con La cambiale di matrimonio diluita e distanziata in teatro. Ora nemmeno quello, siamo a casa e il Rossini è deserto, solo un pianoforte illuminato al centro, Alessandro Marangoni a inaugurare un festival immateriale. Immateriale ma presente, immateriale come il fuoco, come la luce, il pensiero, la musica stessa.

Non può che essere un concerto breve, che si presenta nel modo più essenziale, quasi ascetico, senza scimmiottare un evento dal vivo, senza infiocchettare la cruda realtà per addolcire, dissimulare il momento tragico. Non a mascherare, ma a sollevare, sublimare, ispirare basta la musica, basta Rossini e affidarsi alle pagine del suo “silenzio”, ai Péchés de vieillesse composti dopo l'addio alle scene teatrali assume stasera un valore ancor più alto. La regia video è sobria e suggestiva, la ripresa audio di alta qualità, per quanto la fruizione casalinga sia sempre frustrante rispetto a quella reale.

Marangoni è un appassionato paladino del repertorio pianistico rossiniano, tanto amato dai suoi devoti quanto ancora latitante dai programmi dei concerti. Eppure, serate come queste danno ancora una volta ragione a Marangoni e a tutti noi sostenitori della causa: il “pianista di quarta classe”, come egli stesso amava definirsi, Rossini per la tastiera scrive pagine geniali, di livello assoluto quanto a invenzione, tecnica, elaborazione, ma così atipiche, inafferrabili da sfuggire a ogni definizione. Sentiamo anche stasera abbandoni, slanci lirici, soluzioni armoniche che possono avvicinarsi alla sensibilità di Chopin ma subito incresparsi in repentine fratture, cambi di rotta, ironie che virano verso una visione perfino oggettiva della musica. E se da un lato Rossini è liricamente romantico, dall'altro sa esserlo anche in una trascendenza virtuosistica lisztiana, se traccia sentieri di straniamento e sarcasmo che poi saranno battuti anche da Satie e sodali, si ricorda anche di essere stato il “tedeschino” che ragazzetto a Lugo e Bologna imparava a memoria Mozart e Haydn, spande perle di dottrina formale classica e guarda ancora indietro, riecheggiando Bach in passi fugati e contrappuntistici che poi ancora si stemperano. E critica la modernità, la speventosa, fumante ferraglia ferroviaria con un melologo (genere che aveva forse assorbito dagli spiritosi musicisti e musicofili fratelli Malerbi a Lugo) che in realtà, con le sue onomatopee e le sue figurazioni sonore del viaggio su binari sa già di futurismo: Un petit train de plaisir, il pezzo che chiude la serata.

Prima, avevamo avuto quel Prélude che nel definirsi inoffensif mette a soqquadro tutta la poetica romantica che pure svilupperebbe così bene, a quella meraviglia che è Une caresse à ma femme, all'intrigante gioco di ritmi danzanti e armonie esotiche della Petite polka chinoise, alla rapinosa Barcarolle e al gustosissmo intreccio di severo stile sacro ed esuberante fisicità profana nella Tarantelle pur sang, avec traversée de la procession. Soprattutto, però, avevamo avuto due inediti: il Rossini Opera Festival c'è, e anche il benigno Poltergeist pesarese non rinuncia a portarci ghiotte scoperte. Un Rien di diciannove battute, foglio d'album del 1861, ci fa sentire nell spazio d'un sospiro quanta musica si possa racchiudere in una manciata di note per pochi istanti. Il Thême et variations, ben più esteso, ha il fascino del work in progress, dell'ispirazione libera per una pagina che dall'autografo sembra essere stata concepita come sola enunciazione tematica e in un secondo tempo arricchita da una serie di variazioni impreviste ma urgenti, sempre più elaborate e complesse. Ecco che il “pianista di quarta classe” getta la maschera e sfida il virtuoso ad armi pari: vengano allora le stelle della tastiera a studiare Rossini e includerlo nel repertorio con Chopin, Liszt, Debussy.

È un peccato non poter applaudire stasera Marangoni dal vivo, sia per il repertorio che propone, sia per la dedizione con cui lo studia e ne approfondisce la poetica specifica, sia per la qualità di un fraseggio consapevole, saggio nelle scelte dinamiche agogiche e coloristiche, sempre ben equilibrato fra trasporto e disincanto, sia per la sicurezza con cui affronta anche i passaggi tecnicamente più scabrosi. Come nel canto, Rossini fa del virtuosismo parte integrante del suo linguaggio, ma proprio per questo per riuscire a eseguirlo bisogna per prima cosa entrare nella sua estetica e nel suo sistema semantico, tanto più che la sua scrittura pianistica non ha mai uno sfogo trascendentale, ma è sempre sottoposta a un controllo severissimo, a impennate e retromarce in continua tensione mentale, oltre che muscolare e tendinea.

Tanto di cappello.

L'esclamazione “È molto più che naïf: è vero!” chiude Le petit train du plaisir e il concerto. Vale anche per noi: sì, anche se non siamo lì in carne ed ossa, è vero. È vero e continuerà a esserlo. Il "silenzio" rossiniano non era tale e non lo è il silenzio imposto dal virus. Il Rof c'è, resta il valore immateriale pronto a farsi ancora tangibile. Teniamo duro e torneremo a esserci anche in carne ed ossa.

foto Amati Bacciardi