L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'entusiasmo di essere pianista

di Lorenzo Cannistrà

Il 10 dicembre, su Rai 5, è stato trasmesso un concerto tenuto da Maurizio Pollini presso la prestigiosa Herkulessaal di Monaco, il 27 settembre 2019. In programma le ultime tre Sonate per pianoforte di Beethoven

Nel film-documentario De main de maître di Bruno Monsaingeon (Idéale Audience/Arte France, 2014), Maurizio Pollini rilascia una lunga intervista in cui parla ovviamente molto di musica, e di pianoforte in particolare, ma anche un po’ di sè, il che è meno scontato per un artista notoriamente schivo come lui. Con un sorriso un po’ imbarazzato, ma che lo illumina in volto, egli confessa di trovare ancora straordinario il fatto che il pianoforte sia uno strumento che reagisce e in qualche modo segue ciò che l’interprete vuol fare, ed “è questa la ragione per cui, tutt’ora, sono entusiasta di essere pianista”.

In quest’ultimo scorcio della sua carriera, con l’entusiasmo che lo contraddistingue, Pollini è ritornato sulle ultime tre sonate di Beethoven, un repertorio affrontato nella sua prima maturità, quando era poco più che trentenne. Gli esiti di quell’approdo sono ben noti: la chiarezza formale, il nitore del suono, l’equilibrio complessivo pongono quell’incisione in una sorta di empireo pianistico, difficilmente eguagliabile da chiunque.

Tuttavia quel disco, al pari di altri in quel periodo, specialmente dedicati a lavori chopiniani, metteva in luce ciò che già chiaramente era emerso nel 1960 durante il concorso “Chopin” di Varsavia, che lo vide incoronato nientemeno che da Arthur Rubinstein: Pollini è un interprete che non c’è, nel senso che scompare dietro la musica che interpreta.

Mentre in altri pianisti illustri della sua generazione (Ashkenazy, Argerich, Lupu, Perahia) era possibile individuare uno stile o un suono personali, un approccio ben riconoscibile, molto più difficile era dire invece cosa fosse “tipico” in Maurizio Pollini, considerato che l’artista milanese non consentiva (e non consente tutt’ora) mai alla musicalità istintiva di insinuarsi nelle pieghe dello spartito. E ciò in quanto la sua concezione del far musica non ha mai potuto prescindere dall’idea che il musicista debba essere al servizio esclusivo del compositore. Questo si percepiva anche in concerto, e finanche nei bis. Da qui le accuse, superficiali, di freddezza e distacco nei confronti della musica da lui eseguita.

Cionondimeno, quel Pollini non ignorava cosa fosse la “tradizione”, nel senso di una musicalità rispettosa del contesto storico in cui l’opera aveva visto la luce. Il fraseggio si presentava tornito, arioso, non privo di sensualità, ma rimaneva comunque quella sensazione di assenza, di volontario arretramento della propria individualità dietro le quinte di uno spettacolo in cui protagonista è chi crea la musica, non chi la esegue.

Nel corso degli anni questo approccio per così dire “neutrale” si è in qualche modo radicalizzato. Pollini sembra aver proceduto per sottrazione, eliminando anche quel poco di superfluo (superfluo per lui!) potesse esserci nelle sue interpretazioni. Già nelle quattro Ballate di Chopin, incise nel 1999, si ascolta qualcosa di diverso, a volte esattamente il contrario di ciò che si è abituati (e quindi si vorrebbe) ascoltare. Si avverte una spasmodica tendenza alla sintesi, alla compressione del dettaglio, alla eliminazione di tutto ciò che possa alla lontana odorare di retorica o magniloquenza, ma senza che venga persa una stilla del carattere epico di quelle composizioni.

Cosa sono diventate allora, a distanza di più di quarant’anni dalla storica incisione del ‘77, le ultime sonate di Beethoven, così come ascoltate in questo concerto tenuto alla Herkulessaal di Monaco di Baviera? Qual è il risultato di questo ripensamento, alle soglie degli ottant’anni, di questo percorso interpretativo che in un eccelso interprete non ha in verità mai fine?

Occorre innanzitutto sgombrare il campo dalla questione relativa alla tecnica pianistica.

Che ci siano stati, rispetto a questo concerto, interventi di editing per coprire qualche errore o sporcizia di troppo, non stentiamo a crederlo. Ma il rapporto tra ciò che si vede e ciò che si ascolta ci restituisce non l’impressione di un anziano pianista in difficoltà, bensì di un interprete che riesce a dominare senza troppi impacci le difficoltà pianistiche anche alla sua rispettabile età. Se così non fosse, avremmo visto ben altro affanno nel finale dell’op. 109, o nella sezione centrale del secondo movimento dell’op. 110, o ancora nella temibile terza variazione dell’Arietta dall’op. 111. In tutti questi frangenti Pollini ci sembra invece a suo agio, riuscendo a dominare i temibili intarsi con regolarità e con una gestualità davvero essenziale ed efficace, e proprio per questo assai gradevole da vedere.

Ben più complesso è il discorso relativo all’interpretazione. C’è qui da tirare le fila del discorso che si faceva poc’anzi, per capire a quali esiti ha portato questa radicalizzazione del pensiero musicale. L’opinione di chi scrive è che il “dimagrimento”, il rasciugamento delle dinamiche, dell’agogica, di tutto ciò che solitamente viene letto dietro le note e che serve per “aiutare” la musica ad esprimere meglio il segno scritto, abbia non attenuato bensì rafforzato l’espressività e reso maggiormente acuminato il messaggio musicale dell’interprete. Come l’ascesi e l’astinenza possono scavare un volto senza renderlo smorto, ma al contrario più vivo ed acceso, così l’ultimo Beethoven di Pollini appare avvolto da un’aria diafana, sia pure nella inalterata sontuosità del suono. E’ quasi come se il pianista volesse dirci che è già scritto tutto lì, che non c’è bisogno di parafrasare un messaggio che è universale, comprensibile a tutti.

Non deve stupire pertanto la carnalità con cui viene affrontata la delicata tessitura dei primi movimenti delle sonate op. 109 e 110. Sempre nell’op. 110, il Recitativo è quasi ansioso, qualche accordo irrompe invece di posarsi cautamente nel discorso; l’Arioso dolente è poco arioso e niente affatto dolente, o per lo meno il dolore che traspare non ha nulla a che vedere con la rassegnazione; ogni nota della melodia è scavata, non cesellata; prevale la nuda essenzialità. Nel primo movimento dell’op. 111, gli accordi finali non sono separati dalle pause, pur scritte, mentre nella mirabile coda prevale un’inquietudine che la modulazione alla tonalità maggiore non riesce a placare. La celebre Arietta conserva un appropriato carattere pacato, ma senza essere mai statica, o meglio “sprofondata”, come si ascolta talvolta. La prima variazione è eseguita proprio così come è scritta: la modulazione celestiale che rappresenta il climax del discorso coincide anche con il momento di maggiore intensificazione sonora,reso quasi ruvidamente da Pollini. Nella sublime quinta variazione non c’è spazio per nuances che tendano al metafisico, o per lo meno non sembra questa l’idea: tutto il tema variato è acceso, quasi febbrile, e vi si sentono insieme ansia e gioia di arrivare alla meta.

In definitiva, questo concerto si ascolta con una curiosità pari al piacere che procura. La curiosità sta nell’attesa di scoprire come ogni successivo movimento di sonata verrà visualizzato attraverso quel particolare prisma di cui è dotato il pianista milanese. Il piacere è insito stavolta non nella apollinea misura, ma nella vibrante essenzialità del discorso musicale, che acquista un calore e una direzione perentori, sconosciuti in altre stagioni della sua carriera. E nel contempo scopriamo qualcosa che ci sorprende ulteriormente: Pollini è un pianista oggi immediatamente riconoscibile, un virtuoso che, a forza di nascondersi dietro le quinte con l’umiltà dei veri artisti, ha fatto di questa caratteristica la sua cifra personale ed inimitabile.

Concludo con una nota vagamente polemica. In occasione delle sue esibizioni degli ultimi anni, in cui il pianista ha dimostrato talvolta di non essere impeccabile dal punto di vista della tenuta fisica, diversi aficionados, ma anche molti musicisti (e pianisti!),hanno alzato ditini e sopracciglia, qualcuno finanche al grido di “largo ai giovani!”. Ebbene, non pare il caso di ricorrere al consunto proverbio della botte vecchia e del vino buono per replicare ad opinioni a volte risibili: ciò che avevo da dire sui preziosi frutti della senilità artistica credo di averlo ampiamente illustrato. E d’altronde la storia dell’interpretazione pullula di grandi interpreti che solo dopo i sessanta-settanta anni hanno detto la propria parola più significativa nella propria arte: non serve elencarli. Quella di musicista, e di artista in generale, non è un’occupazione come le altre: in alcuni casi è un mestiere soprattutto per “vecchi”, specialmente quando sono ancora pieni di entusiasmo e voglia di dire qualcosa di nuovo. Come Maurizio Pollini.


 

 

 
 
 

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