Dal classico al sublime

di Antonino Trotta

L’Unione Musicale di Torino s’addentra nel cuore delle celebrazioni beethoveniane con il primo dei due concerti dedicato alle sonate del genio di Bonn, affidato all’aristocratico ed entusiasmante pianismo di Pietro De Maria.

Torino, 5 febbraio 2020 – Non esiste, nella letteratura di ogni luogo e ogni era, niente che possa vagamente accostarsi alle trentadue sonate per pianoforte di Beethoven. Del genio di Bonn esse sono l’opera magna, ma per certi versi anche l’opera omnia perché laboratorio in continuo fermento, palcoscenico di sperimentazioni ardite, diario di bordo di un’indagine durata una vita – non a caso, la serie di concerti dell’Unione Musicale su esse incentrata è sottotitolata “Un viaggio nel viaggio” – che dal classico conduce al sublime. Sulla linea del tempo che racconta la storia della musica segnano l’anno zero della produzione pianistica, la pietra del paragone, per dirla alla Rossini, rispetto a cui si valuterà il prima e il dopo. Già quando debuttano sulle scene, le trentadue sonate – trentasei con le quattro senza numero d’opera –, in virtù di quella monumentale classicità tutta proiettata verso il futuro, diventano modello per i compositori d’avanguardia e in egual misura riferimento per i critici conservatori. Del resto esse sono interpreti di un’epoca, quella del concertismo borghese e del virtuosismo da salotto, e precorritrici di un’altra, quella del recital d’invenzione lisztiana, del cui repertorio esse si fanno ben presto caposaldo. Le sonata di Beethoven infatti definiscono il primo punto di contatto con il mondo del professionismo, ieri come oggi, e al tempo stesso ne suggellano il vertice: il dilettante più sfigato, con lacrime e sudore, riuscirà bene o male a cavarne qualcosa di dignitoso; il musicista più brillante non sarà mai pago degli orizzonti che sono capaci di dischiudere in quanto amalgama di tecnicismo e cultura musicale nelle loro massime espressioni.

Ecco allora che un interprete come Pietro De Maria, dall’alto di una profonda maturazione artistica e nel pieno di un’eccezionale consapevolezza tecnica, individua nelle sonate di Beethoven una sfida innanzitutto intellettuale. Tale è parso l’approccio alla seconda sonata op. 2 n. 2 in la maggiore che De Maria affronta con rilassata spaziosità, così da porre in risalto i solari meccanismi – ottave, staccati, arpeggi spezzati – di ispirazione haydniana. Se da un lato il controllo assoluto della tastiera garantisce a ogni nota una bellissima rotondità di suono, dall’altro l’eccezionale fraseggio conferisce totale autorevolezza all’esecuzione, ancor più entusiasmante nel contesto di una sonata comunque giovanile. Traguardo raggiunto anche a mezzo di scelte agogiche raffinatissime, come il magnifico rubato nella riesposizione finale del tema dello Scherzo o quello sulla scala ascendente che riespone il tema prima dell’episodio in minore del Rondò, dove lo staccato di De Maria suona particolarmente incisivo e patetico. La stessa lezione di stile, la stessa magniloquenza espressiva, si fa ancor più presente nella sonata n. 2 op. 26, la sonata preferita di Chopin per lo squisito lirismo dell’Andante con Variazioni, oltre che per l’inaudita presenza di una marcia funebre, a cui poi Chopin stesso farà poi riferimento. La Marcia funebre sulla morte di un Eroe, che di questa sonata è senza dubbio il passaggio più significativo, sottolinea anche il passaggio più erudito della lettura di De Maria. Senza obbedire ai preconcetti moderni secondo cui una marcia funebre vada eseguita in maniera morbosamente lenta, De Maria s’inoltra nel terzo movimento – che è privo di indicazioni di tempo – con passo maestoso e carattere solenne, evocando con suono secco lo squillo degli ottoni, in eloquente stacco sul rullo soffocato delle percussioni, sapientemente reso dall’uso mirato del pedale di risonanza.

Due le sonate del periodo centrale: la sonata n. 24 op. 78 in fa diesis maggiore “a Thérèse” e la celeberrima sonata n. 23 op. 57 in fa minore “Appassionata”, tra i più amati capolavori di Beethoven. Il carattere tragico di quest’ultima, evidente sin dalle prime battute, assurge a modello archetipico dello stile eroico di Beethoven e De Maria ne sublima la drammaticità con accenti irrequieti e un trascolorare dello strumento che qui più che mai è canale di potenza narrativa. Al di là dell’approfondimento del testo pianistico – il finale dell’Allegro assai iniziale, dove De Maria fa ascoltare tutte le voci intermedie dell’infernale corale, è magnifico –, l’inarrestabile perpetuum mobile conclusivo avanza, stretto tra le spire di un’inarrestabile scrittura, con frasi interminabili di grandissimo pathos. Nell’elettrizzante coda la tensione è alle stelle e conclusasi la sonata la platea si sfoga in un tripudio liberatorio di applausi. Assolutamente da non perdere il secondo appuntamento (il 6 maggio).