L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Petruška e Alexandr

 di Stefano Ceccarelli

Il maestro Daniele Gatti torna a dirigere l’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con un programma tutto russo e novecentesco: la versione orchestrale di Petruška di Igor Stravinskij e Alexandr Nevskij, cantata per mezzosoprano, coro e orchestra op. 78 di Sergej Prokof’ev. Il pubblico accoglie assai calorosamente il concerto.

ROMA, 20 febbraio 2020 – La carriera del Maestro Daniele Gatti ruota, ora, essenzialmente a Roma, dov’è direttore stabile del Costanzi; qualche apparizione, dunque, nel cartellone dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è certamente resa più agevole in tal senso. Il programma presentato nel concerto odierno prende a piene mani dal Novecento russo e da due dei suoi maggiori protagonisti, Stravinskij e Prokof’ev.

Il concerto si apre con la versione orchestrale (1947) del balletto Petruška, uno dei capolavori di Stravinskij. Messo in scena nel 1911 allo Châtelet di Parigi, Petruška fu un successo sfolgorante in quell’incredibile (e irripetibile) stagione creativa che furono i Ballets russes di Djagilev – e, in particolare, lo fu anche grazie alla magistrale interpretazione dell’enfant prodige Nijinskij. Gatti segue la versione del 1947, pensata più esplicitamente come musica da ‘suite’ orchestrale. Il gesto di Gatti è, al solito, assai chiaro e soprattutto volto a tergere il suono dell’intera partitura: ciò che mi pare distinguere, infatti, il suo gusto precipuo è proprio l’attenzione alla chiarezza e bellezza del suono. Ovviamente, cercando sempre di ‘schiarire’ ogni momento della partitura può capitare che taluni passaggi risultino, inevitabilmente, meno d’effetto di come risulterebbero, al contrario, se sorretti da un’agogica diversa. Farò alcuni esempi sparsi. Quella sorta di marcetta, di melodia da organetto che compare nel I quadro, una di quelle melodie che si possono ascoltare ad una fiera russa, risulta un po’ troppo priva del giusto colore; allo stesso modo si potrebbe citare il momento della morte della marionetta Petruška nell’ultimo quadro, poco sottolineata, quasi – direi – lasciata andare, per concentrarsi sulla sua ‘trasfigurazione’ finale, su quella sospensione orchestrale che indica, appunto, l’apparizione del fantasma della marionetta. Ho trovato Gatti superbo, invece, nei momenti d’assieme, come l’inizio del I e del IV quadro, cioè le feste russe, dov’è riuscito a rendere con incredibile vividezza i colori cangianti, le poliritmie e le screziature di un affresco corale, un affresco – passatemi il termine – fiammingo, giacché descrive con precisione quasi ogni figura che vi si muove dentro. In tal senso, vista appunto la sensibilità così fisica che Gatti sente nel suono, la sua lettura del II e III quadro (cioè quelli più intimistici), eccetto qualche momento di più stretta tensione, ancora un po’ dilatato, risulta assai d’effetto: potrei citare la sensuale resa della danza del Moro con la Ballerina, su cui il direttore fa incistare elementi orchestrali di disturbo con notevole maestria.

Il secondo tempo vede l’esecuzione della cantata Alexandr Nevskij di Prokof’ev. Qui, Gatti riesce (al contrario di come aveva scelto di fare in Petruška) di essere molto più incisivo in molti momenti orchestrali e il risultato è incredibile. La direzione è sempre tesa, vibrante, sì attenta alle screziature sonore (si pensi agli effetti allucinati degli archi che evocano i ghiacci, paesaggio della battaglia del Ciudi), ma pure scultorea, come nel trascinante ed epico finale, quando Prokof’ev evoca la trionfale entrata di Nevskij a Pskov: l’orchestra viene slanciata, con una gestualità che esalta la monumentalità incredibile di questo pezzo. Ekaterina Semenchuk, che entra scalza in un vestito rosso acceso (un’allusione al sangue che nel testo si mescola al ghiaccio?) canta divinamente la sua celebre aria, che descrive la battaglia fra l’esercito del principe Aleksander e i Teutoni: un’allusione chiarissima alle tensioni fra Russia e Germania nazista agli inizi del Secondo Conflitto Mondiale. La Semenchuk canta con voce rotonda, potente, ben porta, scura e brunita nei passaggi ove necessario, eterea nel librarsi in verticale; attenta, ove richiesto, a evocare volumi soffusi, spettrali. Gatti dirige superbamente anche il coro, che dona una performance incredibile per effetti e colori (come nel “Canto di Aleksandr Nevskij”), confermando la straordinaria qualità di questa compagnia. Dopo l’epico finale la sala si solleva in un saluto plaudente a Gatti e agli interpreti.


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