Nazionalismi in musica

 di Stefano Ceccarelli

In data unica, Riccardo Chailly dirige l’orchestra del Teatro alla Scala, in trasferta presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, assieme al talentuoso Jan Lisiecki, al pianoforte. Il programma è assai ricco, tutto dedicato a esponenti delle scuole nazionali a cavallo fra ‘800 e ‘900: Finlandia, poema sinfonico op. 26 di Jean Sibelius, il Concerto in la minore per pianoforte e orchestra op. 16 di Edvard Grieg e i Quadri di un’esposizione (nell’orchestrazione di M. Ravel), capolavoro di Modest Musorgskij. Benché il pubblico applauda calorosamente alla fine dei singoli pezzi e dell’intero concerto, qualche criticità si registra soprattutto nella resa dei Quadri.

ROMA, 24 febbraio 2020 – Riccardo Chailly e l’Orchestra del Teatro alla Scala sono i protagonisti di un concerto straordinario nel cartellone della stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Il programma che portano è tutto basato su musica tardoromantica e ‘nazionalistica’ di primo ‘900; un programma, peraltro, ricco e molto attraente, in un concerto che non lascia certo risparmiare le energie ai suoi esecutori, in particolare per l’accoppiata del Concerto per pianoforte di Grieg e i Quadri di Musorgskij.

La serata si apre con una gradevole esecuzione di Finlandia di Sibelius. Chailly è direttore molto sensibile alla partitura e alla resa eloquente e gradevole della stessa. L’orchestra della Scala, inoltre, si svela da sùbito per essere un’orchestra squisitamente teatrale: il suono è teso, robusto (persino nelle compagini degli archi), come in un’opera verdiana, ben compatto. Lo si intuisce, appunto, oltre che dalla solida schiera degli archi, soprattutto dagli ottoni, che danno prova di notevole bravura (ma, vedremo, purtroppo, in séguito saranno l’oggetto di qualche vistoso problema). Finlandia è un affresco di contrasti, molto teatrale nel suo andamento chiaroscurale e coloristico: è per questo che l’orchestra della Scala è perfetta nella sua esecuzione. Potrei citare, ad esempio, il lugubre ma compatto attacco degli ottoni, così deciso, a nette campiture di colore; sempre gli ottoni, oltre alle sferzate degli archi, sono i protagonisti dell’incisivo ed epico tema principale che si dipana nella sezione centrale. Chailly dirige magnificamente, sapendo anche dosare momenti di più pacata introspezione, quelli ingentiliti dai timbri dei legni; chiude con un finale spumeggiante e degnamente sibeliusiano nell’esaltazione del sentimento patriottico.

La seconda parte del primo tempo presenta l’esecuzione del Concerto per pianoforte di Grieg, probabilmente il momento più alto, in termini qualitativi, dell’intera serata. Torna in Accademia Jan Lisiecki, un ragazzo straordinario per talento e musicalità, la cui carriera è stata seguìta, quasi passo passo, dal pubblico romano, mercé le sue frequenti apparizioni nella capitale italiana. Il gusto di Lisiecki, con gli anni e l’esperienza, appaiono evidentemente raffinati, grazie naturalmente all’esperienza di un’affermata carriera internazionale. Il Concerto di Grieg, inoltre, è particolarmente teatrale, tanto nel gusto che nella struttura: ciò comporta che l’orchestra della Scala si trovi perfettamente a suo agio, accompagnando il pianoforte solo quasi come fosse la voce di un cantante in recital. Chailly imprime da sùbito un’agogica sì attenta a mantenere vivo e vivace il ritmo, essenziale nell’Allegro molto moderato, ma che si allarga per esaltare la liricità palpabilmente teatrale del pezzo. Lisiecki entra da sùbito con decisione, suonando magnificamente gli accordi discendenti che aprono con magniloquenza il I movimento. Il tema principale, orecchiabile, viene eseguito e variato nello sviluppo con maestria; Lisiecki stupisce anche nel saper dosare il volume sonoro nel secondo tema, più lirico. Il I movimento è incredibilmente piacevole nella commistione di melodie e impasti orchestrali: la cadenza finale, dove l’interprete dà giustamente sfoggio delle sue doti virtuosistiche, è un degno suggello. L’Adagio, aperto da un teatrale, quasi operistico intervento degli archi, vede il solista dipanarsi fra le dolcezze di un tema cantabilissimo: qui Lisiecki mostra il suo lato autenticamente cromatico, giocando con volumi, colori, rallentamenti, mostrando appieno di che raffinatezza è capace. Senza soluzione di continuità, si slancia l’Allegro molto moderato e marcato. Chailly scioglie le redini dell’orchestra, mentre Lisiecki inanella temi e momenti di galoppante virtuosismo, talvolta soluti in oasi liriche, a creare un contrasto altamente drammatico. Il virtuosismo di Lisiecki non si risparmia, sempre, però, attento al dialogo con l’orchestra. Il finale strappa un fiume, incontenibile, di applausi. Lisiecki torna più volte sul palco, infine regala un bis prima di congedarsi, un bis in tema: l’“Arietta” di Grieg (Pezzi lirici op. 12, n. 1).

Il secondo tempo è tutto occupato dall’esecuzione della versione orchestrale, ad opera di Ravel, dei celeberrimi Quadri di un’esposizione di Musorgskij. Chailly sceglie una direzione molto d’effetto, con rallentamenti e accelerazioni ben ponderate, tentando di sfruttare al massimo gli effetti coloristici dell’orchestra. Così, per esempio, in Bydlo, dove si evoca un carro trainato, la compagine orchestrale dei bassi viene stirata fino quasi a ‘spezzarsi’ per suggerire l’idea, appunto, della fatica dei contadini russi nella lavorazione della terra. L’esecuzione dell’Orchestra scaligera, però, è stata funestata da qualche problema, talvolta macroscopico: mi riferisco ai legni e agli ottoni. Vistose stonature degli ottoni si registrano nei graffianti passaggi di Samuel Goldenberg e Schmuyle, soprattutto perché Chailly imposta un’agogica d’effetto, tale da non lasciare scampo a possibili imprecisioni; ma pure nell’attacco terrifico di Catacombae. Certo, chiunque abbia ascoltato la versione originale per pianoforte (certo più bella di quella per orchestra, a mio avviso) non avrà che potuto notare la massiccia presenza di dissonanze, che costituiscono comunque un tratto squisitamente fauve; nella versione per orchestra, però, il tutto è stato ripulito e mitigato, e tale deve risultare all’ascolto. Un altro passaggio sicuramente ben diretto, ma che ha sofferto di qualche momento poco centrato dell’orchestra, è stato il rutilante La capanna di Baba Jaga, in particolare nei momenti più slanciati degli incantesimi della strega. Pezzi, invece, assolutamente ben riusciti sono gli schizzi repentini, ma coloratissimi, del Balletto dei pulcini nei loro gusci e del Mercato di Limoges. La teatralità ‘genetica’ di questa orchestra si vede bene, inoltre, nell’esecuzione ben vivida dei passaggi più atmosferici, come l’elegiaco Il vecchio castello e Cum mortuis in lingua mortua. Il finale, La grande porta di Kiev, forse la quintessenza musicale dell’idea di maestosità, è assai ben diretto ed eseguito: Chailly gioca dando diversi volumi al celeberrimo ed epico tema, conferendo energia e ieraticità. Gli applausi suggellano il gradimento del pubblico.