L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Al passo funebre dell’Eroica

di Francesco Lora

La musica tradizionale curda e la Sinfonia n. 3 di Beethoven uniscono il Ravenna Festival al popolo siriano: la pioggia si dissipa attraverso il canto e la pittura di Aynur e Zehra Doğan, lasciando il cielo sgombro sul concerto di Riccardo Muti con l’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini” e la Syrian Expat Philharmonic Orchestra.

RAVENNA, 3 luglio 2020 – Seduti a posti diradati nel quadrilatero della Rocca Brancaleone, con lo sguardo a occidente, sopra il palco dell’orchestra, si vede un cielo come nella pittura romantica di Friedrich: fondo azzurro, nubi grigiastre, l’ultimo sole che parla dell’immenso e dell’infinito soprattutto da dietro quegli ostacoli. Sopra la testa grava invece un cielo di piombo, che già dal pomeriggio ha minacciato rovesci furiosi. Ci si poteva trasferire al chiuso del Teatro Alighieri, a costo di lasciar fuori metà del pubblico, ma si è preferito rimanere tutti insieme all’aperto, anche quando la pioviggine inizia a scendere insistente e nega di voler finire in breve. Si aprono gli ombrelli e la platea di sedie distanziate si ritrova d’un tratto sotto un unico tetto. I professori dell’Orchestra giovanile “Luigi Cherubini” e della Syrian Expat Philharmonic Orchestra corrono a mettere al riparo gli strumenti. Sul palco rimangono Aynur e Zehra Doğan, l’una cantante, l’altra pittrice, curde entrambe, venute con le arti loro a testimoniare contro la bestia della guerra in Siria, e a rendere più vicina la dedica a due vittime dalla parte dell’uomo: la giornalista Hevrin Khalaf, voce libera e coraggiosa, e l’archeologo Khaled Al-Asaad, difensore di Palmira mutilata. Sono queste le ‘vie dell’amicizia’ che Ravenna Festival tende, tra popoli, anche nell’anno della pandemia: 3 luglio, con replica il 5 presso il Tempio di Nettuno a Paestum.

Dodici minuti di canti curdi e altri dieci a furor di popolo, mentre dal cielo piove più forte e fino all’insperata calma. L’orchestra torna allora svelta sul palco e Riccardo Muti, rimasto fermo ad ascoltare la voce della Siria, leva la bacchetta sulla Sinfonia n. 3 di Beethoven. La sua lettura è spedita, senza eccessi né compiacimenti, fondata sull’ormai remota arte del lavoro sul suono: i modi (introversi), i timbri (marmorei) e i fraseggi (smussati) di ciascuna fila d’orchestra precipitano verso un centro comune – sodo, austero, poderoso – anziché rifrangersi in una collezione di identità diverse; per un vero fortissimo bisogna attendere le ultime variazioni del quarto movimento, e per la calligrafica messa a punto di preziosismi retorici l’attesa è crudamente vana. Con un’eccezione: il primo movimento, da una parte, e il terzo e il quarto, dall’altra, divengono il paio d’ali su un secondo movimento, la Marcia funebre, che fa discorso a sé. Incede caliginosa e sulfurea, trascinandosi dietro non l’evocazione di un affetto o la descrizione di un’idea, ma la tragedia di una verità: racconta di guerra, di morte e di eroi. Gli eroi di resistenza caduti sul campo: proiettate sul fondale, le loro fotografie scorrono non per emozionare, sorprendere e commuovere – concetti abusati e insulsi davanti ai concreti orrori dei conflitti armati – ma affinché si veda e si sappia, per voler divenire uomini nuovi; al passo funebre dell’Eroica.


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