L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il senso della crisi

di Roberta Pedrotti

Dopo Michele Mariotti, è un altro gradito ritorno sul podio a segnare la ripresa dell'attività del Comunale di Bologna, quello di Juraj Valčuha. Il valore dell'interprete, ancora una volta, non può prescindere dal contesto, anzi, ne fa eloquentissima chiave di lettura, inno al profondo valore etico e civile rappresentato dal riappropriarsi della musica dal vivo con consapevolezza e discernimento.

BOLOGNA 1 luglio 2020 - Poche professioni sono incomprese - e, di conseguenza, vilipese - come la critica. Sarà, forse, che nell'etimologia del verbo greco κρίνω (krino) si raccoglie solo l'aspetto estremo del giudicare e si tende a dimenticare il ben più sostanziale processo di discernimento, riflessione e valutazione, così come dell'affine κρίσις (krisis) vediamo schiumare in superficie la negatività di un momento di passaggio, di scelte e cambiamenti. Allora, andando un po' più a fondo, l'esercizio critico vero e proprio consisterà non in un giudizio finale, ma in un percorso intellettuale di ricerca, analisi e comprensione, in una lettura del fenomeno nei suoi vari aspetti. Non solo è necessaria la consapevolezza di considerazioni e percezioni soggettive, ma anche di come dati oggettivi e misurabili (in musica potrebbero essere intonazione, agogica, coordinamento) siano comunque inevitabilmente filtrati e interpretati dall'individualità dell'osservatore critico, in un determinato momento e contesto.

Prendiamo questo concerto bolognese del primo luglio. Quello che dovrebbe essere l'oggetto della recensione è in sé semplice e lineare: il Notturno di Martucci, il Siegfried-Idyll di Wagner e la quarta sinfonia di Beethoven sotto la direzione di Juraj Valčuha al Comunale di Bologna. Ma possiamo parlarne come se fossero solo il Notturno di Martucci, il Siegfried-Idyll di Wagner e la quarta sinfonia di Beethoven sotto la direzione di Juraj Valčuha al Comunale di Bologna? No. Non dopo quattro mesi di chiusura dei teatri, non quando la pandemia è ancora in agguato a riaccendere focolai, non con l'orchestra distanziata in platea che ritorna a suonare insieme dopo tanto tempo ma senza il consueto contatto fisico e acustico, con il pubblico sparpagliato nei palchi, l'accesso subordinato a mascherine, igienizzanti, controllo della temperatura, senza poter nemmeno stringere la mano agli amici che non si vedevano da mesi. 

È chiaro, non è un fatto da giudicare, un concerto come questo. È un fenomeno su cui riflettere, da discernere, anche nelle sue manifestazioni soggettive e irrazionali, come quando, sui primi accordi del Notturno, il suono dell'orchestra finalmente dal vivo si riscopre vibrando nei nervi, senza passare dal cervello, e sgorga copioso in lacrime. Il ritorno in teatro, il ritorno alla fisicità e alla condivisione della musica è come una rinascita, una riscoperta, una ridefinizione di parametri e priorità. Riaffiora l'esperienza soggettiva legata ai sentimenti di sopravvivenza: la commozione, nelle ultime settimane, di fronte ai generi di prima necessità ancora non scontati, dopo lunghe code, al supermercato, la commozione all'idea di essere ancora vivi e in salute con i propri cari. Ora si riscopre il margine fra il sopravvivere e il vivere in quel ritrovare il gesto, lo strumento, "la nota che non è più sola" che "vibra di gioia in un accordo arcano". Si riconosce, quando gli armonici superiori dei violini passano attraverso il legno del parapetto sotto le nostre mani, il suono all'italiana, sorridendo all'idea che invece un'orchestra dell'est Europa l'avremmo sentita fisicamente nello scorrere dei bassi dal pavimento. 

Nonostante la distanza, anzi, dalla distanza stessa, l'amalgama sonoro prende corpo, la visione dall'alto della platea in cui l'orchestra si diffonde, con le luci accese a mezza sala, offre una percezione sensoriale nuova, che stimola a osservare nuove prospettive, fra vista, udito, rapporti acustici e interpretazione. Stordisce, quasi, il progressivo delinearsi dell'impasto timbrico del Notturno, d'una morbidezza avvolgente, ombreggiato fra inquietudine e ricerca di pace tanto affini al nostro sentire odierno. E più che mai attuale risulta il carattere che Valčuha imprime al Siegfried-Idyll, pagina per antonomasia intima e serena che ora sembra rivelare una ferita, un turbamento, una sofferenza nascosta che scorre come una vena carsica. Come se la perfezione familiare celebrata da Wagner con la nascita del figlio e l'amore per Cosima rivelasse un'altra, dolorosa, faccia della medaglia, un senso di precarietà forse mai inteso prima, come si fosse liberato un varco sonoro fra gli spazi fisici che separano gli strumenti e le persone. Viceversa, l'architettura beethoveniana fatta di continui richiami di elementi melodici e ritmici sussulta di sorprendente speranza. Anzi, di gioia, quando vediamo zampillare lo stesso tema di fiato in fiato nel primo movimento. Valčuha mette in evidenza, senza perdere mai di vista il disegno complessivo, questi dettagli che la nostra dislocazione, le luci, il contesto rendono così potentemente tangibili e visibili. La situazione diventa occasione, chiave di lettura, illumina i meandri del testo di Beethoven con una vitalità inebriante che non si trova in contraddizione con il senso di sospensione e indeterminazione caratteristico di tutta la partitura, fino a quel finale leggiadro che tuttavia fa evaporare il suo impulso nel ripiegamento, dolce e un po' titubante, delle ultime battute. Si chiude un cerchio, si riavvolge su se stessa l'atmosfera attonita e titubante di un momento di crisi, vale a dire di cruciale passaggio, nel quale però non manca un sussultare di vita gioiosa, di desiderio, di rinascita. 

Gli applausi ripetuti che abbracciano Valčuha e l'orchestra sono il segno che è per questo che sopravvivere diventa vivere: perchè la crisi non sia crollo ma consapevole mutamento, perché la critica non sia giudizio asettico ma instancabile discernimento. Perché la smania di superare la tragedia non la faccia dimenticare e non si trasformi in pericolosa temerità, perché l'orrore vissuto non sia paralisi. Perché le lacrime e la gioia che possono prendere forma in un suono in teatro rappresentano ciò per cui val la pena lottare, ciò che dobbiamo preservare con la ragione, il rispetto di regole e competenze, la cura del bene comune.

foto Andrea Ranzi - Ranzi/Casaluci


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