Che nulla manchi

di Roberta Pedrotti

Pur fra alti e bassi di un cast assai buono salvo che per il baritono e una concertazione problematica, Il trovatore in forma concertante allo Sferisterio di Macerata, produzione salvata dalla pandemia seppur priva di componente scenica, ci offre l'occasione di riflettere su sostanza e accessorio, essenziale e superfluo nel teatro musicale e nell'approccio al testo.

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MACERATA, 25 luglio 2020 - L'opera riparte, l'opera vive, ha dimostrato e sta dimostrando la sua forza. Non è, però, una buona ragione per compiacersi appagati, anzi: è una ragione in più per riconsiderare la responsabilità la consapevolezza nel nostro rapporto con l'arte. Per sapere che sarà impossibile, anche per i migliori musicisti al mondo, rendere perfettamente “Protegga il giusto ciel” o “L'onda dei suoni mistici” se i cantanti non possono stringersi, ma devono fermarsi a due metri di distanza, con un'orchestra parimenti spalmata e dilatata. Per sapere che non è tutto come prima, non è tutto risolto, non possiamo guardare e ascoltare come solo sei mesi fa. Per sapere che a fronte di spettacoli particolarmente riusciti e sigificativi, in cui l'ingegno coglie i vincoli del momento e li trasforma in arte, c'è tutta una quotidianità del fare teatro che ancora sfugge, ancora fatica.

Si stanno dando – e spesso benissimo – opere in forma completa, ma non è sempre possibile, per esempio. Nemmeno a Macerata, dove lo spazio non manca nell'estensione del suo palco, c'è stato modo di progettare una dimensione teatrale compatibile con la distribuzione dell'organico indispensabile. Si ricorre, almeno, a qualche proiezione di tramonti e cieli stellati sul grande muro dello Sferisterio per non lasciare del tutto nuda e immota la serata.

Di più risulta difficile, oggi, immaginare, e ci riporta sotto gli occhi l'incontrovertibile verità di un teatro musicale che continua a leggere, abitare, rispecchiare il contemporaneo e pure ne soffre, si mostra splendido anche nelle sue catene, attende di essere liberato e ci costringe a pensare come mai avevamo fatto, forse. Pensare al fatto che le scene i costumi intesi come cornice e decorazione non sono che ammennicoli superflui, ma scene e costumi intesi nel loro valore di parte di un tutto e di un'idea sono sostanza fisica non meno di una voce che sa dire, esprimere, piegarsi nel fraseggio rispetto a una voce che, banalmente, si riduca a vacua esibizione. Come la pandemia ha costretto chi ha potuto e voluto capire a ripensare le priorità dell'esistenza nelle piccole cose quotidiane, anche il teatro musicale ci ribadisce prepotentemente la distinzione fra apparenza e sostanza in ogni sua – necessaria – componente. Tutto può essere accessorio o fondamentale, in base al valore che gli si dà.

Dunque, di fronte al compromesso di un Trovatore in forma oratoriale, dove tutto quel che possono fare Manrico, Leonora, il Conte e Azucena è entrare, uscire, guardarsi intorno e muovere in braccio, non è detto che la teatralità debba venire necessariamente a mancare, anche se la rinuncia a qualcosa è inevitabile. Il guaio è che là dove tutta la regia dovrebbe essere nelle mani del concertatore, proprio la giovane bacchetta di Vincenzo Milletarì si rivela impari al compito.

Ovvio, la poca esperienza, le difficoltà oggettive dell'esecuzione all'aperto con esecutori distanziati non possono non essere prese in considerazione come attenuanti e stimoli per un futuro affinamento, ma la questione è anche sostanziale, non solo accidentale. Milletarì sceglie di metter sul leggìo l'edizione critica del Trovatore, e fa benissimo. Fa benissimo anche quando ammette alcune puntature di tradizione (e nella Pira anche il fatidico “O teco” sale solo nella ripresa, com'è giusto e logico), perché la filologia riguarda il testo e indaga, semmai la prassi esecutiva con cui rapportarsi ad esso. Ma poi il testo vive sulla scena e fa un grosso errore chi sminuisca lo studio filologico come sterile imposizione agli interpreti: si tratta invece di fornire loro gli strumenti migliori, una visione completa del lavoro dell'autore e della storia della partitura per liberarsi dai lacci di convenzioni, banalizzazioni, abitudini. Non si tratta di fare o non fare questo o quell'acuto, ma di entrare nella sostanza della frase musicale, di comprenderla nei suoi dettagli minuti, di poterla rendere e far vivere, quindi, nel migliore dei modi. Purtroppo, invece, la visione di Milletarì, al netto degli acuti concessi (che sono accessori), cade proprio sul fraseggio, sulle dinamiche, sulla drammaturgia musicale (che è sostanza). I tempi, più che scorrere fluidi, sono scanditi rigidi per blocchi precisi, senza un respiro che affini insieme canto e senso teatrale, spesso più simili a un precipitare fine a se stesso. Lo si avverte quando, per esempio, manca di definire il crescendo di “Sull'orlo dei tetti”, quando troppi accompagnamenti risultano meccanici e insensibili al canto, i momenti d'azione veloci ma non incalzanti, la Pira più danzereccia che incendiaria. Per non parlare di “Ha quest'infame l'amor venduto”, in cui si corre, si corre e si perde di vista il contrasto fra l'allargarsi dello sfogo di Manrico e l'ansia di Leonora che lo vuol salvo e ha i minuti contati per il veleno ingerito. Il senso del dramma coincide sempre con il senso della musica, la parola dà respiro al canto e questo è quel che manca nella concertazione di Milletarì.

Un certo disagio si percepisce, dunque, anche nel cast. Luciano Ganci va in crescendo, è comprensibilmente cauto soprattutto là dove la bacchetta non aiuta né la poesia né il generoso slancio cavalleresco, si rinfranca via via, nell'aria fatidica – con un “Ah sì ben mio” dalle belle intenzioni di fraseggio e una Pira che centra il bersaglio – come nel nostalgico duettino con Azucena, nella rabbia e nel dolore dell'ultimo confronto con Leonora. Si sa, non solo la voce è bella e ben emessa, ma la bontà della tecnica va di pari passo con la perfetta, chiarissima articolazione del testo e tutti questi elementi, nelle giuste condizioni, confermano Ganci come uno dei più interessanti tenori del momento.

Roberta Mantegna sembra segnare il percorso inverso: parte bene, ma quegli acuti che all'inizio suonano giusto un po' taglienti sembrano spegnersi mentre la serata prosegue, sicché la terribile “Tu vedrai che amore in terra” risulta meno incisiva del dovuto. Ma il giovane soprano canta bene, la voce è morbida e proiettata come si deve, il colore giusto, cremoso e fresco: dopo averla ascoltata anche nella Léonore della versione francese [leggi la recensione: Parma, Le trouvère, 04/10/2018] non si può non ribadire la buona impressione destata allora.

Chi, però, finisce per colpire di più è l'interprete subentrata in corsa per sostituire Sonia Ganassi (colpita da un grave lutto) e sulla carta forse quella che sarebbe sembrata la meno avvezza al Trovatore. Veronica Simeoni si mostra in gran forma, non ha problemi a far correre la voce e ne sfrutta colore e dimensione lirica per ritrarre una giovane donna la cui vita è stata totalmente assorbita dal trauma della morte della madre, dell'omicidio involontario del figlio, dell'affetto morboso sviluppato per quel figlio adottivo su cui dovrebbe compiere la sua vendetta. È forte e fragile, allucinata, nervosa, estrema, senza mai uscire dal buon gusto e dall'adesione al testo di Verdi e Cammarano.

Come opposti sono i poli drammaturgici della figlia che deve vendicare la madre e causa la morte del figlio (prima il naturale, poi l'adottivo) e del fratello che deve ritrovare o vendicare un fratello e lo condanna inconsapevolmente al patibolo, così sono poli opposti gli esiti di questa serata: ottima l'Azucena di Simeoni, abbiamo detto, e censurabile il Conte di Luna di Massimo Cavalletti.

Se per canto verdiano si intende nobiltà di fraseggio ed emissione, Cavalletti ne rappresenta la perfetta negazione. La frase è proclamata con volgarità, vocali distorte e trascinate in un continuo birignao, in uno scatto forzato che deturpa e svilisce lo sviluppo del discorso verdiano. A ciò si aggiunga che, se all'aperto e in condizioni di distanziamento nella foga una nota non perfettamente a fuoco può capitare a fuoco, i problemi di intonazione si manifestano in Cavalletti sistematicamente dal passaggio di registro.

Fa bene – la voce sarà pure un po' chiara e leggera per quanto siamo abituati, ma si renda l'onore delle armi a chi alterna con credibilità di sera in sera Ferrando e Masetto – Davide Giangregorio, così come Didier Pieri (Ruiz e Un messo), Fiammetta Tofoni (Ines) e Massimiliano Mandolozzi (Un vecchio zingaro).

Quanto al coro preparato da uno specialista verdiano come Martino Faggiani, meglio gli uomini delle donne, per le quali non si può non registrare un incidente proprio sull'attacco di “Ah! Se l'error t'ingombra”.

Alla fine, buon successo, in una serata che ci concede brezza ma la temperatura non precipita come per le recite di Don Giovanni (“Che gelo è questo mai”, era proprio il caso di dire). Così, si può godere anche della notte placida e di una luna che anche se falce e non lieta e piena incanta la notte maceratese, il fascino impagabile dello Sferisterio, il piacere di una cena all'aperto dopo la recita. E ripensare a ciò che manca, a ciò che sentiamo necessario o accessorio nel teatro e nella vita.

 

foto Tabocchini Zanconi