Scintille di vita e canti di morte

di Roberta Pedrotti

Il Festival Verdi torna finalmente al Teatro Regio per un ritorno alla vita e a una consuetudine naturale che ora si riconquista con spirito eroico, anche attraverso un'opera senza speranza e segnata dalla morte come Ernani, nella concertazione avvincente quanto sofisticata di Michele Mariotti, nell'interpretazione di un cast di qualità.

PARMA, 25 settembre 2020 - Hernani ou l'honneur castillan è il titolo del dramma di Victor Hugo che ispirò Verdi e Piave, ma quel senso estremo dell'onore che sembra il cardine dell'azione, a ben guardare, non è che un alibi. È il meccanismo in cui Silva organizza la sua delusione e la sua cieca vendetta, è l'ideale in cui Don Carlo asceso al trono sublima il rifiuto di Elvira e la fine delle passioni giovanili, è il nobile pretesto escogitato da Ernani per suicidarsi. Sì, perché tutta l'opera non è che un'ostinata corsa del protagonista verso la morte, un deliberato anelito autodistruttivo assoluto. Don Alvaro, prima di cantare "La vita è un inferno all'infelice", è stato duramente provato dal destino; Corrado almeno ammette che, prima di diventare corsaro, "Tutto parea sorridere"; Carlo Moor è vittima dell'intrigo del fratello e si abbandona a un nichilismo intellettuale: Ernani no, non sembra aver mai conosciuto un momento felice ("Solingo, errante, misero, | fin da' prim'anni miei, | d'affanni amaro un calice | tutto ingoiar dovei!"), si paragona subito a un "appassito fiore", non perde occasione per offrirsi al patibolo, sia allettando Silva con la taglia del bandito (in una situazione in cui qualunque Manrico avrebbe sguainato la spada per strappare l'amata alle nozze del rivale), sia poi presentandosi con il suo titolo di conte e duca a Carlo che graziava i banditi plebei e condannava i nobili. Alla fine Elvira non può salvare l'amato non solo e non tanto perché Silva è implacabile, ma soprattutto perché le prime note dell'opera erano già il tema del corno "Se uno squillo intenderà tosto Ernani morirà". La condanna è scritta senza via di scampo, è perseguita ostinatamente dallo stesso protagonista, per il quale anche l'amore impossibile e la vendetta irrealizzata non sono che sussulti quasi ricercati per scuorere l'apatia, accelerare la fine e non languire in un limbo.

Ora, l'opera furibonda della corsa all'annientamento diventa viceversa l'occasione di rinascita e ritorno alla vita. Il Festival Verdi con Ernani torna al Teatro Regio, dopo sette mesi e due giorni il pubblico si riaccomoda ben distanziato e protetto fra palchi e platea, la musica dal vivo suona ancora mentre le luci in sala si assottigliano in fiammelle riflesse in scintille dalle superfici trasparenti previste dai protocolli di sicurezza. Come nel titolo del Festival reinventato per l'emergenza, Scintille d'opera in continuo movimento.

La scena, però, è immobile, i cantanti entrano all'inizio dell'opera ed escono solo per l'intervallo, sempre fermi nella loro postazione, l'orchestra (la Filarmonica Arturo Toscanini) si disperde per tutta l'ampiezza del palco, sul fondo, diradati, i coristi. Come tante isole che resistono e si uniscono in musica, costruiscono uno spazio teatrale, un'azione che non c'è: eroici nel guardare avanti alla vita quanto invece Ernani è antieroe votato alla dissoluzione. 

Michele Mariotti lancia sguardo e gesto all'estrema profondità del palco e al proscenio alle sue spalle, per catalizzare e compattare quel pulviscolo sospeso di voci e strumenti. Pur nell'evidente sforzo fisico, l'insieme non viene mai meno, né si perde di vista una lettura mai rinunciataria, anzi, avvincente quanto sofisticata. Dal preludio al terzetto finale sentiamo compiersi un destino segnato e perseguito, sentiamo una spossatezza, una rassegnazione, un dignitoso cupio dissolvi, inevitabile epilogo che non grida il dolore, ma si chiude sobrio in sé stesso. C'era stato agio, nel corso dei quattro atti, di sviluppare le tensioni per raccogliersi nella quiete estrema. In quelle tensioni, Mariotti mostra il senso e il significato delle forme e delle convenzioni del melodramma del primo ottocento, non stereotipi, ma linguaggio, come si evince chiaramente dall'unico crescendo che promanda nella liaison de scène dalla cavatina di Elvira al progressivo sopraggiungere degli altri personaggi fino alla stretta del finale primo. Un unico organismo consequenziale proprio perché scandito fra cantabili e strette, che ne determinano il respiro vitale, le dinamiche, come si evince anche nel modo con cui Mariotti delinea il ricorrere di tempi ternari, quegli accenni di valzer che la tradizione ha degradato a umpapà musik. Invece, il moto di danza cullante si rivela come abbandono al pathos o danza macabra, astrazione dall'incalzare degli eventi in una diversa dimensione, non meno mobile. Quel volgare che volgare non è in senso stretto, ma in senso drammaturgico come immagine sonora del mondo dei banditi, del degrado in cui il nobile Don Giovanni d'Aragona si immerge sotto il nome di Ernani, è nondimeno sottolineato a dovere, senza che la dialettica dei registri espressivi bassi ed elevati svapori né trascenda gli equilibri del buon gusto. 

La partitura si mostra nella sua forma originale, senza le concessioni successive agli interpreti. Non c'è "Odi il voto", il finale alternativo del secondo atto con un'aria per il tenore Ivanov pupillo di Rossini; non c'è "Infin che un brando vindice", la cabaletta presa da Oberto quando Ignazio Marini elevò Silva da comprimario a protagonista: più che legittimo mantenerla se si vuol far felice il basso, ma la scena ha ben altro equilibrio e consequenzialità senza questa pagina e il personaggio ha ben modo di emergere anche senza dar sfogo di virtuosismo battagliero. Lo dimostra Roberto Tagliavini, che non ha bisogno della cabaletta per farsi ammirare e, anzi, gioca con coerenza, bell'eloquio, voce morbida e nobile le carte dolenti e pacate dell'anziano orgoglioso il cui amore disilluso trascolora dall'amara malinconia all'odio cieco, dallo splendore doloroso di frasi come "Io l'amo... al vecchio misero" al gelo del messaggero di morte. 

Piero Pretti dimostra a sua volta che non è necessario essere un peso massimo per cantare Ernani. La sua natura lirica - e la sua frequentazione di Edgardo - evidenzia i legami fra questo Verdi e il Belcanto romantico immediatamente precedente, che di eroi infelici e dannati aveva già offerto un cospicuo catalogo. La grana timbrica conferisce, poi, al suo canto una patina più cupa, valorizzata dal fraseggio intelligente nella malinconia, nello slancio disperato ma mai sopra le righe, nella risoluzione caparbia, nel riserbo maliconico o nel sussurro minaccioso e incalzante di "Io tuo fido?.. Il sarò a tutte l'ore". Di fronte a un antieroe inesorabilmente, nel canto, già votato al suo destino, l'intenzione lirica e l'espansione piena della voce di Eleonora Buratto rende un'Elvira amante ardente e combattiva che non può salvare chi non vuol essere salvato. Con l'avanzare del dramma, Verdi le chiede sempre più accenti accorati o volitivi, morbide legature e filati che mettono in luce le qualità migliori del soprano lombardo. Giunto in sostituzione del previsto Amartuvshin Enkhbat - impossibilitato ad adempiere tutti i protocolli di sicurezza sanitaria nei tempi utili - Vladimir Stoyanov si conferma una solida certezza. Rende giustizia a una delle parti più belle e difficili dell'intero repertorio con emissione sicura e accenti appropriati, senza patire la tessitura insidiosa.

Carlotta Vichi, Giovanna, Paolo Antognetti, Don Riccardo, e Federico Benetti, Jago, sono ottime scelte per completare la locandina di una serata degna del Festival Verdi. Sul coro del Teatro Regio e sul suo maestro Martino Faggiani, alle solite lodi ne aggiungiamo una speciale per "Si ridesti il leon di Castiglia", che forse non riscuote il successo atteso e meritato in termini di durata e intensità d'applausi, ma figura fra le perle emblematiche di questo Ernani proprio per il suo essere antiretorico, un vero, vibrante inno di cospiratori.

Alla fine, però, gli applausi sono prolungati e calorosi come merita un'esecuzione di questo livello, come merita un atteso ritorno a casa. L'emozione della sovrintendente Meo, nel suo saluto in apertura, è la stessa nostra, è quella dei musicisti sul palco: sembra ieri, l'ultima volta che siamo entrati in un teatro senza restrizioni e distanziamenti, ma sembra un'eternità il tempo trascorso senza l'abbraccio di tutto ciò per cui val la pena di vivere e aver cura di noi e del prossimo.