Manon in corner

di Giuseppe Guggino

Giunge in fondo a tutte e quattro le recite riprogrammate in forma di concerto dal Massimo di Palermo la Manon pucciniana, in corner, si direbbe nel linguaggio calcistico, appena qualche giorno prima della nuova e discussa chiusura anti-Covid di teatri e sale da concerto. Di assoluto rilievo la maiuscola prova di Anna Pirozzi nel ruolo del titolo, che mette un poco in ombra quella pur non disprezzabile di Yusif Eyvazov.

Palermo, 21 ottobre 2020 - “Sotto una nuova luce”, come recita il titolo della riprogrammazione di stagione del Teatro Massimo, si è costretti giocoforza a riconsiderare il corso delle cose in questi tempi di imprevisti e incertezze. E allora può anche capitare che nella sciagura di una pandemia mondiale e in quella della nuova chiusura di teatri e sale da concerto in Italia a seguito della progressione nei contagi da Covid, il caso possa anche portare qualcosa di buono. E in questa Manon, giunta in porto un po’ al limite della nuova chiusura, in cui le difficoltà negli spostamenti internazionali hanno costretto alla rinuncia di Angela Gheorghiu, s’è avuta la fortuna di ritrovarsi l’imprevista Anna Pirozzi quale protagonista.

Se già alla lettura della locandina ci si rinfranca alla lettura del nome, costantemente in ascesa negli ultimi anni, accade anche che dopo un buon primo atto, cantato con tanta perizia quanta cautela, a partire dal secondo sia la personalità che l’importante strumento sopranile hanno il colpo d’ala e allora, sin dalle trine morbide (e tanta morbidezza in una vocalità sì strutturata è tutt’altro che scontata) e costantemente fino alla morte di Manon, la serata vira sull’indimenticabile, ché del rammarico per l’assenza della Gheorghiu non rimane neanche un pallido ricordo. Pur sapendo piegare una voce di notevole tonnellaggio nei momenti di maggiore dolcezza e senza sacrificare la cifra adolescenziale del personaggio, la Pirozzi, con sbalorditiva facilità, tanto nei centri quanto in acuto, passa l’Orchestra del Massimo disposta in platea anche quando indugia nel dettaglio, sicché al resto della compagnia, pur di valore, non rimane che brillare di luce riflessa a partire dall’amoroso De Grieux di Yusif Eyvazov.

Il tenore azero, peraltro più aduso all’opera del soprano italiano, oltre ad esibire una plausibile dizione, canta con generosità seppur occasionalmente con qualche opacità, specie nell’afflato iniziale di «Donna non vidi mai», risultato non pienamente convincente; ma poi anche la sua prova prende quota, pur sempre rimanendo un passo indietro quando duetta con la collega, verso la quale non lesina sportivamente le manifestazioni di apprezzamento.

A stendere il tappeto sonoro dei due amorosi, forse impari per smalto e forma vocale ma che non difettano d’intesa nel fondersi, è l’abile Jader Bignamini che dall’Orchestra ottiene un suono ora scattante, ora voluttuoso, sempre preciso, pucciniano ma non puccinista, sebbene probabilmente a causa della disposizione in platea fuori dal golfo mistico, non sempre riesca a riequilibrare gli scompensi dei legni a prevalere sugli archi e più in generale a domare il volume spesso debordante sul canto. E se il Coro, istruito da Ciro Visco, e opportunamente distanziato in profondità oltre il boccascena non sembra lasciarsi intimorire, ne fanno invece le spese gli altri solisti, a partire dal giovanile e corretto Lescaut di Alessio Arduini. Luca Dall’Amico è un giovane Geronte, pur plausibile al ruolo, per la pasta vocale non freschissima; sorprende positivamente Adriana Di Paola che, grazie allo strumento contraltile dal colore prezioso, riesce a ritagliarsi il suo momento di gloria col madrigale del musico nel secondo atto. Sempre pregevole si rivela lo schietto timbro tenorile di Matteo Mezzaro impegnato in tre atti prima come Edmondo, poi come maestro di ballo a casa di Geronte e infine nella canzone del lampionaio, così come a pari livello d’affidabilità si situano ancora Cosimo Diano come Comandante, Antonio Barbagallo come Sergente e Giuseppe Esposito quale Oste.

Successo convinto un po’ per tutti, spente le luci e nel buio del silenzio imposto, il teatro tornerà a mancarci, con l’auspicio che la temporanea assenza sia occasione per meditare sul bisogno collettivo di una comunità di ritrovarsi in un luogo per ascoltare dal vivo una grande voce à la Pirozzi piuttosto che il bel suono di una buona orchestra.