L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Spoiling sulla Cenerentola

di Francesco Lora

L’appello alla tradizione, teatrale e musicale, non fa bene al capolavoro rossiniano, rappresentato a porte chiuse nel Teatro Comunale di Modena e pronto alla trasmissione in streaming. La compagnia di canto, però, ha punte d’eccellenza, dalla Gardina a Siragusa e da Alaimo a Guagliardo.

MODENA, 22 dicembre 2020 – Dalla sua riapertura nell’autunno scorso, il Teatro Comunale di Modena non si è mai fermato: gli spettacoli hanno avuto luogo regolarmente, benché a porte chiuse, e sono stati trasmessi nel circuito OperaStreaming o nel canale YouTube. Ciò significa aver mantenuto non solo un virtuoso lumicino di rapporto col pubblico, ma anche e soprattutto gli impegni con artisti, maestranze, laboratori e fornitori: sono così rimaste in equilibrio le normali economie dello spettacolo dal vivo. Il 30 dicembre, alle ore 20.00, sarà trasmessa La Cenerentola di Gioachino Rossini (ecco il link da salvare in agenda: https://operastreaming.com/spettacolo-cenerentola/). La recita, unica, è però avvenuta il pomeriggio del 22, davanti a una dozzina di distanziatissime persone in sala. Siccome in quella dozzina c’era chi ora sta scrivendo, eccone un resoconto anticipato: chi sente puzza di spoiling fermi la lettura, chi cerca spunti rimanga qui in dialogo.

Quello con regìa e costumi di Nicola Berloffa, scene di Aurelio Colombo e luci di Valerio Tiberi è un nuovo allestimento in piena regola. Il comunicato stampa ha premesso una rassicurante nota di Berloffa medesimo: «nessuna reinventazione [sic] moderna, nessun femminile stereotipo contemporaneo è presente. In scena c’è solo ... una commedia borghese o forse meglio una storia di formazione, in cui i vincitori sono le buone maniere, l’educazione e la ragion pura. ... Non ci sono maschere o caricature grottesche ... [poiché] il libretto, così ben scritto, di per sé funziona ottimamente; ci sono pertanto personaggi che svelano caratteristiche proprie umane e con esse sentimenti tali, consoni ad un’opera in cui assolutamente non è stata prevista la magia o il sovrannaturale. Le coincidenze, i casi, i travestimenti avvengono esclusivamente sotto la guida della Ragione, e la scelta della sposa perfetta alla fine sarà dettata dalla bontà e dall’esposizione di un sentimento puro».

Bozzetti e figurini hanno a loro volta riferimenti storici dichiarati, coerentemente ottocenteschi: il Royal Pavilion di Brighton («guardando verso la meraviglia e lo stupore estetico») e La Comédie humaine di Honoré de Balzac («vero maestro nel tratteggiare a tinta viva i lati più umani dei singoli»). Però non basta abiurare un Luca Ronconi per divenire uno Jean-Pierre Ponnelle. Qui lo si osserva anzitutto nell’altalenante lavoro con gli attori: ciascuno sembra fare da sé e per sé, senza una visione complessiva, confidando nel montaggio video. Se poi la linea scelta è quella della tradizione, della verosimiglianza e dell’immedesimazione, ogni contraddizione al testo e alla logica viene al pettine senza scuse. Nell’elegante palazzo di Don Magnifico – tutt’altro che fatiscente, come dovrebbe essere – si va e viene, infatti, indifferentemente da ogni porta aperta sull’enorme cucina, senza che si comprenda una sensata distribuzione degli spazi. In quella vastità circondata da porte, Don Ramiro entra in cerca di abitanti e spera di trovarne uno forzando un armadio. L’arrogante Tisbe porta occhiali da intellettuale che starebbero meglio sul naso della sognante Angelina, come la regìa di Sven-Eric Bechtolf per la Staatsoper di Vienna – tra le altre – ha già così bene insegnato: nelle sartorie teatrali, l’abito deve fare il monaco. Quando la protagonista si scopre il viso alla festa del principe, il didascalico «momento di sorpresa, di riconoscimento, d’incertezza» è risolto con uno svenimento generale di trita sagacia teatrale, il quale fa il paio con le pretendenti che invocano il principe dentro un salone vuoto e, trovandoselo lì davanti, passano via dando a bere di non averlo visto. «Non credea che tornasse avanti giorno», osserva poi la Cenerentola quando vede rientrare anzitempo a casa il patrigno e le sorellastre: dovrebbe essere sera, ma dalle finestre filtra la stessa luce vista nella scena mattutina. E via così: una disattenzione registica dietro l’altra, parata con l’ombrello dell’oleografismo.

Più che le note di regìa, sarebbe spesso utile leggere le intenzioni del concertatore. Aldo Sisillo, qui direttore d’orchestra oltre che direttore artistico, guida una lettura musicale di tradizione. Tale etichetta, però, non è un complimento nell’età della riflessione filologica, delle edizioni critiche e di una fruizione vieppiù conscia e viemmeno popolare. Spiace riferire di recitativi secchi sostenuti, ancora una volta, da un anacronistico e flebile clavicembalo anziché dal trio di fortepiano, violoncello e contrabbasso; maggiormente spiace ascoltarli sforbiciati a casaccio, con perdita delle rime, della metrica e spesso anche del loro chiaro senso. In organico si ascoltano le percussioni che l’editore Ricordi trovò nei materiali d’esecuzione milanesi di tardo Ottocento, ma che l’autore non mise mai nero su bianco. Il passo impresso dalla bacchetta all’Orchestra Filarmonica Italiana è poi quello di un indugiante flou, non improprio alla fiaba francese ma poco accogliente per il ritmo rossiniano.

Compagnia di canto con punte d’eccellenza. Paola Gardina, come Angelina, vanta agilità impavida e musicalità da vendere; acquisirà ciò che ancora difetta: una più spiccata personalità timbrica e un approccio più giovanile che miniatore. Antonino Siragusa, come Ramiro, è più sfumato, incisivo, divertito e squillante oggi di quanto non lo fosse vent’anni fa. Nicola Alaimo, come Magnifico, gioca più di manate che di sottigliezze, ma partecipa ugualmente alla migliore eredità comica italiana. Ugo Guagliardo, come Alidoro, è interprete simpatico, accurato, signorile. Oltre la puntuale Clorinda di Floriana Cicio, restano due errori di assortimento: Nikolay Borchev, come Dandini, è ancora distante dal disinibito scoppiettio di prosodia italiana, linguistica e musicale, qui più che mai necessario; Ana Victória Pitts, come Tisbe, è invece così sontuosa di pasta timbrica e così penetrante d’accento da rischiare un’involontaria, stupenda insubordinazione sulla primadonna ufficiale.


 

 

 
 
 

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