Quel vecchio maledivami

 di Luca Fialdini

La ripresa lucchese dell’allestimento del Comunale di Modena porta in scena un Rigoletto dai tratti essenziali e dalle atmosfere nordiche

LUCCA, 17 gennaio 2020 - Dire una parola nuova, musicalmente e registicamente, su uno dei titoli maggiori del repertorio come Rigoletto è cosa tutt’altro che semplice; spesso si preferisce adagiarsi sul “già visto” e sulla vecchia tradizione che ancora incrosta il capolavoro di Giuseppe Verdi, quindi chiunque tenti di spingersi in un territorio inesplorato è ben accetto. Questo è proprio il caso dell’allestimento del Comunale di Modena, ripreso dal Teatro del Giglio di Lucca, che propone una visione scenica senz’altro affascinante dove ogni legame con l’Italia è reciso, in favore di un sapore più mitteleuropeo se non addirittura nordico, dove dominano luci e colori freddi.

La regia di Fabio Sparvoli ha due obiettivi primari, ossia l’essenzialità e lo shock: le scene - meravigliosamente realizzate da Giorgio Riccheli - sono scarne, prive di ogni cosa potesse risultare superflua, e questa non può che essere una scelta felice per un’opera per davvero fatta col niente e l’essenzialità di scene e costumi ben si armonizza con una partitura altrettanto essenziale. Ottimo il disegno luci di Vinicio Cheli, che si presenta non solo complementare alle scene ma che aggiunge un quid importante conferendo a queste maggior eleganza ed equilibrio, basti pensare al risultato raggiunto nel III Atto. Davvero riusciti anche i costumi di Alessio Rosati, futuristici e barocchi a un tempo (e forse con qualche reminiscenza lynchiana). Una menzione speciale la meritano i costumi dei cortigiani, tesi a ricordare dei rettili: tonalità e tessuti possono richiamare l’idea delle squame, mentre le enormi gorgiere sono un forte riferimento al collare dell’australiano clamidosauro (tanto che nella sala del Duca di Mantova il coro dei cortigiani si annida ed esce da buie aperture, come fossero tane cavernose). Per quanto riguarda lo shock, Sparvoli ha fatto ricorso a continui stratagemmi che vanno a modificare dei dettagli all’interno della rappresentazione, piccoli ma continui, in modo da non dar tregua allo spettatore che in ogni scena trova un elemento di sorpresa: è il caso degli ammiccamenti omosessuali all’interno del festino del Duca o della gabbia in cui Gilda si trova rinchiusa (un po’ didascalica ma veritiera: Gilda è proprioe un uccellino in gabbia). Interessante l’idea - sebbene forte in contrasto con il libretto - di rendere Rigoletto non gobbo, ma che la sua ben nota gobba faccia parte del costume da buffone di corte.

Convincente anche la direzione del M° Aldo Sisillo, che ha senz’altro centrato la cifra di questa rischiosa opera, infiammata e vigorosa ma anche così ricca di raffinatezze e di delicati passaggi coloristici. L’unica nota davvero stonata in quella che è stata una direzione eccellente è la scelta di continuare a portare in scena il solito Rigolettaccio di tradizione, mantenendo le due orrende - e davvero fuori luogo - puntature del Duca di Mantova, il barrito baritonale su quel purtroppo celebre «È follia!» (che, come dovrebbe essere noto nel 2020, sciupa il forte orchestrale che entra nella battuta successiva e piuttosto che l’interessante accordo di tredicesima voluto da Verdi porta a un banale accordo di quarta e sesta), il fa grave di Sparafucile che si protrae per l’eternità, il portamento che dal do conduce al la bemolle di "Sì, vendetta", che annulla il contrasto croccante della modulazione per transizione che da do minore salta bruscamente a la bemolle maggiore. Ci si può sicuramente prendere delle libertà, ma queste devono avere un senso e soprattutto devono rispettare lo spirito dell’opera: a esempio, la puntatura alla fine del Sì, vendetta è più che condivisibile, dato che si tratta dell’apice del furore del (non) gobbo, mentre la puntatura al termine di "La donna è mobileè inaccettabile, perché costituisce un’interruzione in un momento musicale che non ha interruzioni. Se non altro non sono stati rispettati i brutti tagli tradizionali (a eccezione della cabaletta del Duca), ma il taglio operato sul perigordino è davvero inspiegabile. È un peccato, perché sarebbe stata un’ottima occasione per avere finalmente un Rigoletto autentico e di livello, ma per lo meno in questo aspetto la produzione è stata davvero italiana.

Il vigoroso cast, invece, non ha convinto completamente, a cominciare dai comprimari: alcune performance si sono dimostrate «sanza 'nfamia e sanza lodo», nel dettaglio quelle di Paolo Marchini (Uscere), Stefano Cescatti (Ceprano), Raffaele Feo (Borsa) e Romano Franci (Marullo), altre sono state maggiormente all’altezza di un’opera che esige il massimo anche dai comprimari (pena la minor riuscita drammaturgica), vale a dire Barbara Chiriacò (Giovanna), Matilde Lazzaroni (Paggio) e Maria Komarova (Contessa di Ceprano), che meriterebbero d’essere ascoltate in ruoli meno marginali. Poco convincente il basso Fellipo Oliveira: il suo Monterone non ha di certo voce «qual tuono» e, dal punto di vista attoriale, sulla scena risulta quasi inerte. Di riuscita eccellente, invece, il basso Ramaz Chikviladze, interprete d’uno Sparafucile che torreggia sulla scena, e dotato di una voce massiccia e cupa, in poche parole il sicario perfetto. Il celeberrimo duetto Sparafucile/Rigoletto aveva già lasciato un buon biglietto da visita, tuttavia Chikviladze ha lasciato una notevole impronta nel III Atto dell’opera, specie nei momenti in combinazione con la “sorella”, il mezzosoprano Antonella Colaianni (Maddalena) e, nonostante quest’ultimo sia un ruolo decisamente ridotto, tanto è bastato per chiarire fin dalle prime battute che proprio quella della Colaianni è stata la miglior prova attoriale dell’intero cast: esuberante, provocante, la sua Maddalena guizza sul palco come una fiamma.

Dal tenore Oreste Cosimo (Duca di Mantova) ci si aspettava qualcosa di più: il timbro è limpido e peculiare, ma nelle regioni acute tende a essere molto sforzato, soprattutto nel duetto con Gilda e - motivo in più per non eseguirle - nelle puntature non scritte. Se da una parte si può apprezzare la leggerezza con cui ha voluto caratterizzare il proprio personaggio, dall’altra si deve ammettere che difettava di carisma. Per converso, molto carismatico il baritono Devid Cecconi, interprete del protagonista eponimo. Oltre all’ottima vocalità e alle indiscutibili doti attoriali, Cecconi ha saputo conferire al proprio personaggio un tratto caratteristicamente buffonesco, un elemento che di solito è tralasciato e che qui è una nota di pregio; ad ogni buon conto, i momenti in cui ha brillato di più sono quelli strettamente patetici, vale a dire il lungo monologo che segue "Cortigiani, vil razza dannatae il doloroso epilogo dell’opera. Autentica rivelazione il giovane soprano Daniela Cappiello, che sulle tavole del Giglio ha portato una Gilda dalla voce duttile e aggraziata, interessante soprattutto nel piano, specie nel registro acuto, dove rimane ricca di armonici ed estremamente pulita. Molto buona la caratterizzazione delle tre fasi di Gilda: dall’uccellino azzurro elettrico che canta nella propria gabbia a vittima e, infine, a martire. La maggior sorpresa è stata proprio questa, l’eccellente riuscita di questa terza, tragica incarnazione del personaggio, dove la Cappiello ha dato prova di non essere in grado di fare solo qualche agilità ma di essere capace anche di grande intensità espressiva.

foto Rolando Paolo Guerzoni